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Più di venti anni di idee e riflessioni racchiuse in un libro denso ed attuale. Io, il popolo di Nadia Urbinati, nella sua versione italiana del gennaio 2020 – quella inglese pubblicata da Harvard University Press è dell’agosto 2019 – rappresenta il più recente contributo sul populismo, un concetto ancora troppo ambiguo e difficile da determinare. Come un fiume carsico, il populismo scorre sotto traccia per riemergere in periodi di forti incertezze, momenti traumatici e fasi di crisi, nelle forme che conosciamo e con tutta la sua forza dirompente.

La questione principale che Urbinati pone riguarda la comprensione del fenomeno all’interno della dinamica democratica. La democrazia populista, infatti, è considerata come una variante del governo rappresentativo in cui il rapporto diretto tra leader e popolo, il suo popolo, diventa uno strumento da brandire contro l’altro, in questo caso l’establishment e non l’élite. La dicotomia amico-nemico assume così una relazione specifica nella quale il popolo del leader contrasta l’establishment, coloro che operano e lavorano nelle istituzioni e non producono niente. Basti pensare alla quantità di materiale iconografico prodotto a partire dall’Ottocento e che ha rappresentato l’establishment come il “nemico” intento a succhiare il sangue del popolo. Una classe politica, e non una classe economica, in grado di vivere soltanto attraverso la tassazione del popolo. L’establishment è il tradimento del popolo mentre il leader populista è la faccia di questo popolo invisibile, non riconosciuto, silenziato, a cui dare visibilità e attraverso il quale ottenere legittimità.

Ma cos’è il popolo oggi? Cosa rappresenta? Il popolo negli ultimi anni, anche grazie e soprattutto agli studi sul populismo, è diventato un oggetto di riflessione nel campo delle scienze sociali: il people-centrism per capire la natura del populismo e le strategie populiste. Un popolo “puro” rappresentato come un gruppo “monolitico” o “omogeneo” in grado di decidere del proprio destino e a cui restituire il potere. Il popolo concepito come un’unica entità con confini chiaramente definiti. Confini tra chi appartiene a questo gruppo e chi cade al di fuori di esso. Un gruppo a forma di cerchio con dei criteri di appartenenza e di esclusione spesso definiti dalla retorica populista del leader.

Il popolo viene così valorizzato e ideologizzato, diventando una “comunità immaginata” composta esclusivamente da “uomini comuni”, gente comune. Un costrutto su cui i leader populisti pongono una forte enfasi. Pensiamo al registro dell’emotività usato dai leader populisti per evocare la nazione perduta. Paul Taggart parla di heartland, la terra del cuore, un territorio dell’immaginario collettivo con confini incerti o addirittura inesistenti. Questa vaghezza è sfruttata dai leader populisti che fanno appello al popolo per giustificare e legittimare le proprie opinioni e credenze. L’elevato grado di incertezza consente inoltre ai leader politici di fare appello al popolo in modi diversi e mutevoli. Ciò che conta è riempire un vuoto. Il leader populista infatti riempie, nella dimensione emotiva, un cuore vuoto. Per esistere ha bisogno di eccitare le passioni, cosa che si manifesta nel linguaggio e che differisce considerevolmente a seconda di quale leader viene preso in considerazione.

Per Ernesto Laclau il popolo di cui parla il populista non è strutturato, non è il popolo dei partiti o dei movimenti, ma è un popolo atomizzato nella condizione di sofferenza e povertà. Un popolo che non ha rappresentanza e voce ma che può essere unito da un leader, nella sua persona: “Io sono voi”. In realtà, “popolo” oggi è un termine neutro, che ottiene una connotazione solo quando è adeguatamente contestualizzato. In altre parole, è l’aggettivo che politicizza il nome diffondendo su di esso un’aura di emancipazione e collettivismo (Badiou 2013). L’aggettivo del popolo a volte può produrre identificazione. Altre volte, può descrivere la natura della legittimità di cui gode un sistema politico (ad esempio, il “popolo sovrano”). A seconda del tipo di aggettivazione, il concetto di popolo può acquisire diverse caratterizzazioni. Pertanto, “il popolo” può significare molte cose diverse per molti populisti in diverse circostanze. Può riferirsi, ad esempio, all’elettorato, alla nazione o a nessun gruppo definito. Ciò non significa che il popolo non abbia alcun significato. Significa solo che la comprensione del termine dipende dal contesto.

Un contesto che a volte collide o si sovrappone alla dimensione popolare estendibile oltre che al termine “popolo” anche ai concetti a geometria variabile di “classi popolari”, proiezione e manipolazione conscia degli interessi del leader politico, e al loro successivo distacco, come evidenziato nel lavoro di Bertuzzi, Caciagli e Caruso (2019), quando la loro “voce” diventa incomprensibile e la mescolanza all’idea di una cittadinanza integrata accelera la verticalizzazione tra rappresentanti e rappresentati segregando in micro parti questi ultimi.

Ma il popolo è anche lo strumento con cui la “volontà generale” viene attuata. In questa prospettiva il popolo diventa “sovrano” quando assume i connotati di un corpo astratto e collettivo (Canovan 2005), esistente al di sopra di tutto e al di sopra di tutti gli individui che lo compongono, come in “noi, il popolo degli Stati Uniti” o “il popolo svedese dichiara”, o nel caso italiano dove per Costituzione la “sovranità appartiene al popolo”. Questa ambiguità nel concetto stesso di popolo solleva domande difficili sull’esercizio della sovranità: quando i cittadini eleggono i propri rappresentati, o votano in un referendum, esprimono la volontà del popolo sovrano? Non c’è una risposta univoca perché il popolo sovrano si muove costantemente tra questi diversi nodi e la sovranità del popolo si manifesta contemporaneamente con elementi collettivi e individuali. È un mito che a volte assume le forme della realtà politica come oggi la conosciamo.

Un “mito moderno” (Weale 2018) sviluppato sull’idea errata che la democrazia sia una diretta conseguenza del governo del popolo, dal popolo, per il popolo. Ciò presuppone che la politica del governo possa essere decisa direttamente dal popolo mentre esercita il suo potere collettivamente. Paradossalmente l’effetto di mettere più potere nelle mani del leader o dell’esecutivo che parla per il popolo ha una conseguenza diretta sulla manipolazione della politica ai propri fini. Non solo: l’idea della volontà del popolo viene spesso utilizzata per mettere a tacere il dissenso su importanti scelte politiche, basti pensare ai temi della sicurezza.

Ma una politica di presenza popolare può anche prendere forma virtuale attraverso i social media, ad esempio, dove incontri apparentemente personali imitano incontri reali. Perché i leader politici twittano così tanto? Perché raccontano su Facebook o Instagram la loro vita privata e pubblica? Perché i loro followers li amano quando lo fanno? Perché un tweet o un post danno l’illusione di una relazione diretta tra leader e follower. Per quest’ultimo, il tweet/post è indirizzato solo a se stesso, senza intermediari. Il follower immagina una relazione personale con il leader. La finzione della presenza e la personalizzazione del potere vanno di pari passo.

Basti pensare al discorso di insediamento di Trump del gennaio 2017, come ricorda Nadia Urbinati. Un capolavoro di retorica stringata di un capopopolo. Il potere che ritorna al popolo attraverso un leader che segna un cambiamento. La festa del popolo è il momento in cui il governo è controllato dal popolo stesso tramite un leader sempre presente, nella realtà e nel virtuale, che parla lo stesso linguaggio del popolo e che condivide la stessa morale del cittadino ordinario. Non un eroe ma uno come noi impegnato in una campagna permanente e in una costruzione continua della democrazia rappresentativa.

Il populismo è il sospiro della creatura oppressa. Qualsiasi sistema democratico degno di questo nome risponderà a quel sospiro. Ma dovrebbe rispondere non sulla base del mito, ma sulla base di una valutazione realistica delle alternative (Weale 2018). Realismo non significa rinunciare ad importanti riforme sociali ed economiche. Significa riconoscere che la politica consiste nel decidere sulla base delle volontà di persone diverse, perché le persone sono diverse e ci sono modi diversi e spesso incompatibili di combinare le loro opinioni.

David Hume una volta disse che gli errori della religione sono pericolosi, mentre quelli della filosofia rischiano soltanto di essere ridicoli. Il mito moderno del popolo suggerisce che anche negli errori della filosofia politica può celarsi un pericolo. Quello di guardare agli altri da un cerchio che qualcuno ha disegnato intorno a noi e che ha chiamato volontà della maggioranza.

Riferimenti bibliografici
A. Badiou, G. Didi-Huberman, J. Rancière, J. Butler, P.Bourdieu, S. Khiari, Qu’est-ce qu’un peuple?, La Fabrique, Paris 2013.
N. Bertuzzi, C. Caciagli, L. Caruso, Popolo chi? Classi popolari, periferie e politica in Italia, Ediesse, Roma 2019.
M. Canovan, The People, Polity Press, Cambridge 2005.
E. Laclau, On Populist Reason, Verso, London 2005.
P. Taggart, Populism, Open University Press, Buckingham & Philadelphia 2000.
A. Weale, The Will of the People: A Modern Myth, Polity Press, Cambridge 2018.

Nadia Urbinati, Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia, Il Mulino, Bologna 2020.

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