Migliaia di manufatti appartenenti al tesoro del regno di Dahomey (coincidente con l’odierna nazione del Benin) vennero trafugate dalle truppe coloniali francesi al termine del XIX secolo. Custoditi per decenni a Parigi, prima al museo etnografico del Trocadero e poi presso il Musée du quai Branly, nel 2021 vennero restituiti alla nazione di provenienza ventisei manufatti degli oltre settemila saccheggiati più di cento anni prima. Dahomey (2024), Orso d’Oro per il miglior film presso la 74° edizione del Festival cinematografico di Berlino, racconta il viaggio di questi oggetti dalla Francia al Benin, la loro installazione nell’ala museale del palazzo presidenziale di Cotonou, i festeggiamenti per l’arrivo e i dibattiti che questo evento ha generato fra gli studenti dell’università di Abomey.
L’inizio del film mostra il posizionamento dei reperti nelle casse da spedizione, di cui viene registrato in modo analitico la trafila delle piccole azioni necessarie per il loro trasporto. La regia assume dunque una modalità osservativa, caratterizzata dall’assenza di «commento fuori campo, senza musica aggiunta o effetti sonori, senza intertitoli ne’ ricostruzioni storiche, senza ripetizioni di scene per la cinepresa» (Nichols 2014, p. 149) e fondato su «l’atto di guardare gli altri mentre svolgono i propri compiti» (Ivi, p. 150). La macchina da presa è posta a debita distanza dagli atti registrati, in modo da non interagire con le persone che le compiono, limitandosi ad osservale e a coglierne le dinamiche frapponendo una distanza fra essa e chi viene ripreso, un distacco tanto spaziale quanto relazionale. Inoltre, le inquadrature si caratterizzano per la fissità e la durata: la macchina da presa non si muove e si trattiene per diversi secondi prima dello stacco. Queste caratteristiche stilistiche riguardano tutto il film: non solo l’inizio posto in Francia, ma anche le sequenze ambientate nel museo del Benin e la parte finale dedicata alle discussioni studentesche.
Al contempo, Mati Diop decide di inserire degli elementi finzionali nel proprio film: il manufatto diviene un personaggio che parla e che racconta le proprie riflessioni relative al viaggio verso casa. Una voce acusmatica emerge dalle immagini delle opere d’arte in modo da simboleggiarne lo spirito: possiede un timbro cavernoso e parla in fon, la lingua dell’antico regno di Dahomey, oltre a fluttuare fra le inquadrature accompagnata dalle suggestive musiche composte da Wally Badarou e Dean Blunt. La regia sottolinea la presenza fantasmatica di questo personaggio in vari modi: costruendo delle inquadrature che pongono al proprio centro i manufatti invece delle persone che le toccano (per esempio, nelle scene ambientate nei musei, gli operatori vengono tagliati ed espulsi dalle inquadrature, che mostrano solo parti dei loro corpi) e realizzando delle false soggettive che simulano il punto di vista delle opere d’arte.
Questo espediente assume varie forme: da una parte, la macchina da presa viene posta nei contenitori dei manufatti così da condividere il loro ipotetico sguardo. Ad esempio, è situata dentro le teche di vetro nel museo del Benin, oppure è collocata nella cassa adibita al trasporto delle opere d’arte, così che lo schermo diventa nero quando il contenitore viene chiuso, accompagnato dal rumore delle viti che vengono saldate. Dall’altra, mentre il film racconta la prima notte al museo del Benin dopo l’arrivo dei reperti, Diop sceglie di far parlare la voce acusmatica mentre le inquadrature esibiscono dettagli di foglie e di fiori, come se lo spirito dei reperti avesse deciso di girovagare nel giardino del museo per godere della natura della sua terra d’origine. Infine, l’elemento finzionale è sottolineato dalla componente narrativa che viene introdotta nell’ambito documentaristico proprio tramite la personificazione dei manufatti (protagonisti della storia che li vede trafugati e poi restituiti) e la voce che ne esprime le riflessioni. L’approccio narrativo, infatti, è «caratterizzato da una storia individuale dotata di una certa intensità, e di personaggi che vengono raccontati […] anche attraverso la loro testimonianza diretta verso la macchina da presa» (Hendel 2021 pp. 7-8).
L’unione antitetica di elementi finzionali con la modalità osservativa documentaristica è solo uno dei tanti accostamenti dialettici che caratterizzano il film. Accanto ad esso, è posta la divisione in due parti del documentario, scisso fra il racconto del viaggio dei ventisei manufatti e il dibattito generato dal loro arrivo. Mati Diop filma le riflessioni dei giovani universitari mentre discutono su numerose e importanti problematiche relative alle conseguenze del colonialismo e del suo retaggio culturale. La regia torna a porre al centro dell’inquadratura gli esseri umani invece che le opere d’arte: i giovani sono ripresi mentre discorrono, senza che fra loro e la macchina da presa siano disposti degli ostacoli (come altre persone, oggetti o il vetro delle teche) che ne offuschino la visione.
Il linguaggio filmico, tramite la messa in quadro, suggerisce il passaggio di testimone dal passato, incarnato dai manufatti parlanti del regno di Dahomey e simboleggianti l’identità e la cultura nazionale (“l’anima del popolo” come dice uno degli universitari), ai giovani studenti, presente e futuro del Benin, raffigurato come democratico e partecipativo, pronto ad affrontare a viso aperto le ferite del passato per fronteggiare le problematiche presenti. Questo concetto viene suggerito a livello linguistico anche dalla voce: tramite il passaggio da un’unica voce magica e acusmatica (l’antica lingua fon dei manufatti) a una polifonia caotica delle voci reali degli studenti parlanti francese che partecipano al dibattito.
Mati Diop pone il concetto di frattura a nucleo significante del film, tanto nel contenuto quanto nella forma. Quest’ultimo ambito comprende i due concetti già affrontati: la compresenza ossimorica di elementi finzionali con modalità osservazionali, insieme al passaggio delle voci e della centralità nelle inquadrature riservata prima agli oggetti e poi alle persone. Al contenuto, invece, appartengono tanto la lacerazione culturale e storica determinata dal colonialismo, che ha generato anche una spoliazione culturale a cui consegue la ricerca della propria identità da parte del popolo del Benin, quanto l’impossibilità di esprimere l’identità culturale di un popolo, concetto irrappresentabile al cinema (soprattutto nella forma documentaria) e tuttavia centrale nel film di Diop, che la regista tenta di comunicare tramite l’adozione degli elementi finzionali.
Riferimenti bibliografici
L. Hendel, Il documentario narrativo. Come inventare una storia vera, Dino Audino Editore, Roma 2021.
B. Nichols, Introduzione al documentario, Il Castoro, Milano 2014.
Dahomey. Regia: Mati Diop; sceneggiatura: Mati Diop; fotografia: Josephine Drouin Viallard; montaggio: Gabriel Gonzalez; musiche: Wally Badarou, Dean Blunt; interpreti: operatori museali francesi, cittadini e autorità politiche del Benin; produzione: Les Film du Bal, Fanta Sy, Arte France Cinéma; distribuzione: Lucky Red, Mubi; origine: Francia,Senegal,Benin; durata: 67’; anno: 2024.