Le lezioni di Ernst Bloch dedicate alla filosofia moderna e ora pubblicate in un robusto volume dalla casa editrice Mimesis, nella traduzione e cura di Vincenzo Scalone, nascono in un contesto tanto problematico quanto significativo. Si tratta infatti di un corpus di lezioni tenute dal filosofo marxista all’Università di Lipsia nell’arco temporale che va dal 1951 al 1956, e dedicate prevalentemente all’idealismo tedesco, ma con incursioni nella filosofia di Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche. Già erano apparsi in traduzione italiana i due volumi dal titolo La filosofia di Kant e L’idealismo tedesco e dintorni. Ma l’edizione appena uscita colma le lacune che queste pubblicazioni presentavano e restituisce il senso dell’operazione di Bloch non solo come interprete della filosofia occidentale, ma anche come suo “erede”, nell’accezione più problematica del termine: quella di chi non accetta passivamente la parola della tradizione, ma piuttosto l’analizza passo dopo passo dal suo stesso interno.

Lo scenario in cui si muovono queste letture è quello della Repubblica Democratica Tedesca. Ernst Bloch era appena rientrato dall’esilio, prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti, dove si era dedicato alla stesura sofferta di due suoi capolavori come Il principio Speranza ed Eredità di questo tempo. Aveva scelto di approdare nella DDR, riponendo la sua fiducia nella possibilità della creazione di uno Stato tedesco democratico e socialista, dopo l’orrore del Terzo Reich. Con il passare del tempo la delusione fu cocente. Bloch, come molti altri, entrò in rotta di collisione con l’ottusità del regime stalinista. Soprattutto la pubblicazione del Principio speranza (1959) e le posizioni critiche assunte nei confronti della dittatura soνietica lο misero in difficoltà con le autorità comuniste, tanto che fu estromesso dall’insegnamento universitario. L’insoddisfazione di Bloch per il clima degli anni cinquanta emerge del resto da alcune allusioni filosofico-politiche di cui il libro è costellato. Non è un caso se, dopo la costruzione del muro di Berlino, decise di riparare in Occidente, e di trasferirsi a Tubinga per non rientrare più nella DDR.

Gli anni di Lipsia furono consacrati alla didattica della storia della filosofia, da Talete ad Heidegger, ma sotto queste mentite spoglie Bloch poteva inserire il suo pensiero in un gioco sottile di incastri, stratificazioni, montaggi, in un continuo rimando tra il sé e l’altro da sé. E infatti tra le trame degli insegnamenti riportati in queste pagine non mancano di affiorare questioni proprie della sua concezione filosofica. Si tratta di una costellazione di concetti e di motivi che occupano un ruolo centrale e ricorrente nella filosofia blochiana. Basta pensare al tema del Multiversum, al centro dell’efficace e ormai classico studio di Remo Bodei. Con questo concetto Bloch mette in gioco una dimensione del tutto diveniente, fluttuante, duttilmente libera e suscettibile di mettersi continuamente in discussione, e di scompigliare tutti gli schemi che pongono in termini rigidi e statici i rapporti spazio-temporali.

Strettamente imparentato con il Multiversum è il concetto di Zwischenwelten (inframondi), che indica gli interstizi del reale, le fenditure in cui si celano delle anticipazioni, gli spazi vuoti con scintille. Questi motivi che costituiscono l’architrave del pensiero utopico di Ernst Bloch non solo emergono con prepotenza nel corso di un ciclo di lezioni che per definizione sono dedicate alla storia della filosofia classica tedesca, ma rivelano proprio all’interno del contesto didattico il forte debito mutuato dal pensatore con i grandi maestri. Come giustamente sottolinea Scaloni nella sua densa introduzione, per un verso Bloch eredita l’apertura propria della dimensione utopica dalla riflessione di Kant e dell’idealismo tedesco, per l’altro è proprio grazie alla lente della speranza che la sua lettura guadagna in originalità e attualità.

Uno dei Leitmotive che attraversa queste lezioni – restituite nella loro frammentarietà e nel carattere orale che è loro connaturato – va ricercato proprio nel concetto di eredità. Ereditare significa per Bloch entrare in rapporto dialettico con quel che è proprio, riconoscendolo nei suoi tratti di estraneità, ma significa al contempo rintracciare elementi di affinità nell’altro. Il problema è che l’eredità di cui ci parla Bloch non riguarda l’estraneo, o meglio l’altro in quanto tale, ma l’estraneità del proprio: «Familiarità estranea, estraneità familiare, da sempre». E non potrebbe essere diversamente in un pensiero come quello blochiano, che nel leggere i testi che hanno fatto da culla alla sua filosofia della speranza, procede in modo “rabdomantico”, sondando i vuoti e i pieni, scovando quell’inespresso che attende la sua redenzione, e che in latenza opera.

Se la lezione di Bloch è, storicamente e nel suo approccio dialettico, collegata al pensiero di Hegel (come dimostra anche il volume Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel), le pagine del volume Da Kant ad Hegel mettono l’accento sul primo pensatore. Ripercorrendo l’intera produzione filosofica kantiana (senza tralasciare neppure le opere naturalistiche giovanili), Bloch punta l’attenzione sulla centralità occupata dal concetto di speranza. La domanda “che cosa posso sperare?” racchiude in sé tutta la pregnanza del pensiero kantiano, nella sua valenza etico-pratica. Kant è per Bloch il pensatore più rilevante e ultimo dell’Illuminismo tedesco, l’autore che insistendo sul Selbstdenken (il pensare con “la propria testa”) ha reso possibile l’ortopedia del camminare eretti.

Il nucleo etico-utopico, che in Kant è racchiuso proprio nell’imperativo categorico, emerge senza alcun tipo di ambiguità per Bloch nella prospettiva filosofica di Fichte, incentrata sul “fare” (o meglio, sulla cosiddetta Tathandlung, l’“azione in atto”). In questo senso con lui si approda a un’utopia concreta, densa di spunti rivoluzionari. È però nella filosofia di Schelling che Bloch trova una voce a lui particolarmente affine. A dispetto delle letture veteromarxiste (compresa quella di Lukács) che bollavano come reazionario il pensiero tardo di Schelling, Bloch invece evidenza l’importanza del concetto di libertà schellinghiano, la sua tensione verso il futuro, la sua apertura. Il processo al centro della filosofia schellinghiana è infatti retto tanto dal Daß, ovvero il fattuale privo di fondamento, quanto dal Was, ovvero dal suo che-cosa come essenza ancora da realizzare.

La lezione più articolata resta quella che Bloch dedica al “gran maestro della filosofia classica tedesca”, ovvero Hegel. In linea con le osservazioni portate avanti in Soggetto-Oggetto, anche queste pagine riconoscono nella dialettica hegeliana sia elementi progressisti (un metodo che vive di continue rotture con il presente) sia aspetti conservatori (lo stesso metodo è una reiterata ciclicità di tesi, antitesi, sintesi). Lo stesso giudizio cala inesorabile sul sistema hegeliano, che oscilla costantemente tra progressismo e conservazione dello status quo.

L’ultima sezione delle lezioni raccolte in questo importante volume muove ben oltre Hegel e la filosofia classica tedesca, seguendo un percorso che si articola in due diverse direzioni. Se per un verso la dissoluzione dell’hegelismo si configura come linea della catastrofe (Unheillinie) e vede come tappe principali Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche, la linea della salvezza (Heilslinie) – che compare come scritta in uno dei più significativi quadri di Kiefer – muove dalla Sinistra hegeliana fino a Marx ed Engels. Solo lungo questo secondo percorso, che finalmente si è emancipato da quel pessimismo così lontano dalla prospettiva blochiana e da forme di proiezioni vuote, la dissoluzione dell’hegelismo incontra un futuro autentico. Con Marx si apre secondo Bloch uno scenario del tutto nuovo: una “linea della salvezza” che non procede in modo lineare, ma che piuttosto presenta delle latenze.

Con le parole messe in campo da Bloch: «Il nuovo, però, ciò che differenzia e dà valore, sta proprio in questo orizzonte mutato e l’intervento in un nuovo orizzonte, un orizzonte della tendenza e della latenza […]» (2024, p. 509). L’utopia delineata dal Marx di Bloch non può prescindere dalla conoscenza della realtà effettuale, e per questo si configura come “utopia concreta”. È proprio sulla roccaforte di queste categorie di trasformazione e all’apice della Heilslinie che le lezioni di Lipsia collocano la filosofia di Marx, a partire dal suo famoso motto di salvezza “mutare il mondo fino a renderlo riconoscibile”. Se Bloch non è riuscito a mutare il suo mondo, che anzi ha dovuto abbandonare, questo non fa di lui un cattivo maestro. Il compito dell’insegnante, lo sappiamo, è quello di indicare la via di uscita anche laddove questa è ancora – come nel caso del marxismo blochiano – un cantiere aperto e costellato di dirupi e punti d’inciampo.

Ernst Bloch, Da Kant a Marx. Lezioni di storia della filosofia moderna, Mimesis, Milano-Udine 2024.

Share