«Che cosa significa pensare in un mondo che si va facendo – se non si è già fatto – uno?». Con questo interrogativo Sandro Chignola introduce la sua raccolta di saggi, Da dentro. Biopolitica, bioeconomia, Italian Theory (DeriveApprodi, Roma 2018), che rappresenta, secondo la sua stessa affermazione, la dimostrazione della continuità teorico-politica del suo lavoro. Si tratta per lo più di seminari, convegni o lezioni tenute in diverse località d’Europa e in Sud America – in particolare Brasile e Argentina – non del tutto inediti perché spesso già pubblicati in altre lingue.
Per quanto gli articoli possano essere letti in ordine sparso e in maniera indipendente l’uno dall’altro, è possibile rintracciare almeno tre temi ricorrenti che fungono da file rouge: dei nove saggi presenti due sono dedicati al dibattito sull’Italian Theory, tre si occupano della discussione intorno alla “fine dello Stato”, e i restanti si focalizzano sul nesso politica e vita in un ritmato corpo a corpo con alcuni interlocutori privilegiati: Toni Negri, Roberto Esposito, Giorgio Agamben.
Non a caso lo stesso titolo del libro sembra fare eco a un saggio recente di Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa, in cui Esposito si proponeva di portare avanti, partendo dall’assunto che «è sempre l’esterno a illuminare l’interno» (Esposito 2017, p. 17), una nuova riflessione teorica “sul” e “per” l’Europa da un punto di vista “esterno”.
Ciò che sembra immediatamente chiaro è che l’uso di questa categoria di “fuori” concepita da Esposito per rispondere all’annichilimento attuale del pensiero è utilizzata da Chignola in un senso completamente opposto. È ciò perché, come Chignola, alla Negri, afferma fin dalla prima pagina e ribadisce fino all’ultima, questo mondo semplicemente “un fuori non lo ha più”. Ci troviamo, piuttosto, di fronte a un certo “farsi dentro” del mondo che può essere declinato in direzione non solo economica e politica, ma anche, come vedremo fra poco, filosofica.
Perché non c’è fuori? Perché siamo di fronte a un «duplice processo di unificazione» (Chignola 2018, p. 7). Presupposto generale delle analisi di Chignola è la convinzione che il processo del “farsi mondo del capitale”, ormai completamente compiuto, si sia intrecciato inesorabilmente con il problema della vita. Questo processo di sparizione del fuori avrebbe, insomma, un nome: biopolitica.
L’attuale sistema di accumulazione capitalistica, esteso ora a tutto lo spazio possibile, procede di pari passo con la metamorfosi biopolitica del potere, verso un’operazione di totale messa a valore o capitalizzazione della vita. Fortissimo il debito qui evidentemente nei confronti di Foucault, riferimento costante, utilizzato quasi chirurgicamente in tutti i saggi, molti dei quali si propongono di indagare, appunto, la natura di questo passaggio fondamentale, da differenti angolazioni: sul piano medico, penale, tecnologico, militare.
Allo stesso modo la discussione biopolitica non può prescindere da un lavoro profondo e improcrastinabile sulla crisi e sulla trasformazione della statualità contemporanea. Chignola argomenta analiticamente e in maniera approfondita la riconfigurazione dello statuto del politico, imbastendo una vera e propria «fenomenologia di una progressiva marginalizzazione dello Stato» (ivi, p. 62). Il processo di decostistuzionalizzazione, desovranizzazione, deterritorializzazione, già descritto da Foucault, prende oggi il nome di governance. Chignola descrive perfettamente questo processo: nei vari saggi seguiamo questa operazione di riorganizzazione complessiva del potere in direzione tecnico-amministrativa che ridisegna problematicamente il rapporto tra politica, cittadinanza, territorio sovranità e vita.
A questo programma di globalizzazione politica ed economica, che avrebbe sancito la fine del fuori, se ne aggiungerebbe, secondo Chignola, un terzo. Anche il pensiero filosofico, o per lo meno, una certa filosofia politico-critica, sarebbe investito, in qualche forma, da una deriva che imporrebbe l’impiego degli stessi canoni, criteri, categorie, concetti e perfino autori per esplorare i meccanismi governamentali attuali. E ciò appare, d’altronde, avvalorato dalla vicenda geografica del libro stesso che, pur unendo conferenze discusse in spazi così distanti tra loro, non può non nascondere una generale e diffusa omogeneizzazione del dibattito filosofico contemporaneo. Quello a cui si assiste quindi sarebbe un completa e totale uniformazione del mondo a cui corrisponderebbe una altrettanto totale tendenza all’unificazione di tradizioni di pensiero.
Ciò spiega il motivo per il quale Chignola non ritiene adeguato né appoggiare, né tantomeno appartenere, alla cosiddetta Italian Theory o Italian Thought, verso la quale non risparmia un giudizio severo: etichetta applicata retrospettivamente a pratiche politiche e militanti di una certa Italia degli anni ’70-’80; tradizione artificiale che difende un’indifendibile idea nazionalista (seppur nel senso attenuato di cultura nazionale). Coerentemente con quanto detto prima, del resto, la filosofia politica non può esprimere uno stile o un uso locale, non difende una specificità determinata attraverso margini; al contrario, frantuma quotidianamente questi confini mostrando (ancora una volta) il farsi globo, il farsi uno, del pensiero (anche del pensiero critico). In qualche modo, sembra suggerire Chignola, l’Agamben letto in Argentina non sarebbe il sintomo di una “italianizzazione” o di un processo di italianizzazione della filosofia Sud-America. Si legge Agamben, cioè, non in quanto italiano ma perché mette a tema questioni e tematiche mondiali, mondializzate, oltre-italiane, oltre-europee.
Lo scioglimento del fuori interesserebbe, allora, anche il pensiero così come la legittimità di una separazione geografica, temporale, spaziale e simbolica del manicheo binomio dentro-fuori. In questo senso, il punto cruciale della discussione sta proprio nel fatto che è la stessa idea di dentro e fuori a saltare in aria, così come quella di un’Europa, e in questo punto si può notare la frizione con Esposito, intesa come spazio fisico e onto-filosofico privilegiato del pensiero.
Senza dubbio questa, se la si può chiamare così, ragione positiva della globalizzazione, che avrebbe incluso perfino il pensiero critico di una filosofia che pensa non già localmente ma solo globalmente il “farsi uno del globo”, questa rivendicata internità della filosofia, risulta in un certo punto problematica. E lo è proprio perché l’“assenza di fuori” non corrisponde mai, per Chignola, a una resa. Al contrario questo dentro senza più un fuori si configura come lo spazio dal quale è possibile ricominciare a pensare e a lottare. Invece di guardarci da fuori Chignola preferisce, negrianamente, stare “dentro e contro”. Lo scrive senza troppi giri di parole: «perché se un fuori dei giochi di potere non c’è e non c’è mai stato tanto meno può darsi ora quando i suoi algoritmi tracciano ininterrottamente le nostre esistenze» (ivi, p. 150) ergo «da questi processi non è dato dichiararsi “fuori”» (ivi, p. 6).
Bisogna allora cominciare a fare filosofia a partire da questa posizione di internamento, questa posizione interna, in cui siamo comunque, nostro malgrado ascritti, e da cui non possiamo sfuggire, dal momento che non esiste un luogo “pacificato” e liberato dalla rete di tensioni, attriti e resistenze che il dispositivo biopolitico-governamentale ha prodotto e produce costantemente. Chignola si dimostra il miglior allievo di Foucault: fare filosofia significa prendere posizione. Ogni pensiero equivale, quindi, a un posizionamento politico che non può negare la propria «internità al mondo, può solo aiutare a schierarsi, non certo pretendere di descrivere, criticare, afferrare la realtà da un’impossibile posizione esterna rispetto alle cose» (ivi, p. 8). Evidente in questo punto ancora una volta l’eredità di Foucault, intorno all’appartenenza come rivendicazione del ruolo politico della filosofia e del filosofo che deve collocarsi nel “campo della immanenza del reale” in uno sguardo sagittale verso l’attualità.
Questo posizionarsi si configura anche come dimostrazione inevitabile di una certa collocazione, non solo politica, ma anche geografica, spaziale e temporale: si riflette sempre a partire da un certo luogo che non è uno qualsiasi ma è l’oggetto stesso dell’indagine. Si pensa direttamente da questo dentro, quindi, allo stesso tempo, spazio e oggetto dell’investigazione filosofica. Sarebbe questa, dunque, la «doppia internità» (ivi, p. 6) rivendicata dal libro: la posizione interna di un non-fuori.
Si può notare, inoltre, l’affermazione dell’intrinseca politicità della filosofia, dalla quale è necessario ricavare una “politica della filosofia” intesa non nel senso oggettivo bensì soggettivo del genitivo: «come forma della responsabilità politica della filosofia» (ivi, p. 113). Una responsabilità che, rompendo con la classica divisione teoria-prassi, si configura come uno «stare nel mondo della filosofia» (ivi, p. 13) intesa come forma di rapportarsi al mondo, “pratica situata”. L’unica filosofia possibile, allora, avverte Chignola, appare quella che si fa stile di pensiero, nel senso di attitudine sperimentale del lavoro teorico posizionata sul piano immanente della nostra attualità.
Il nostro duplice compito sarebbe, quindi, allo stesso tempo pensare il presente assumendoci «la responsabilità della libertà che siamo» (ivi, p. 69), e inventarci un futuro, vale a dire nuovi meccanismi di soggettivazione, nuove “forme di vita” fuori dalla macchina logora e obsoleta della rappresentanza e della sovranità. Questa politica costituente volta non a disapplicare il diritto bensì inventarlo altrimenti, «il proprio diritto ad avere altrimenti il diritto» (ivi, p. 171), struttura il nuovo terreno di battaglia di un soggetto concepito come un “attraversamento di confini”, senza fuori e senza margini, una serie continua di «dis-posizioni immanenti che attraversano il campo storico» (ivi, p. 182).
Dal libro di Chignola risulta quindi che la sparizione del fuori non corrisponde a un evento negativo, né tantomeno drammatico. Paradossalmente è proprio la sparizione del fuori che apre all’evento. Come suggerisce il suo testo, in definitiva, da dentro dobbiamo collocarci e in questo dentro dobbiamo stazionare orgogliosamente rivendicando l’urgenza e la necessità di una filosofia militante, intrinsecamente politica-radicalmente etica.
Riferimenti bibliografici
P. Cesaroni, S. Chignola, Politiche della vita. Istituzioni, soggetti, discorsi, pratiche, DeriveApprodi, Roma 2016.
S. Chignola, Da dentro. Biopolitica, bioeconomia, Italian Theory, DeriveApprodi, Roma 2018.
R. Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, Torino 2017.