“Signor Umberto, si vede niente?”, “Niente!”, “Eh, un po’ si… lo sa che sono incinta?”, “Dio mio… e lo dici cosi?”. Di fronte all’immagine ottico-sonora pura del proprio corpo in gravidanza Maria, la celebre governante in Umberto D. (1952) di De Sica, non riesce proprio a trattenere la propria angoscia, la propria ansia per il proprio stato. E nel breve scambio di battute col pensionato Umberto Domenico Ferrari, anche quest’ultimo non riesce a nascondere tutta la sua preoccupazione per quel corpo che lentamente, ma profondamente, muta la fisionomia della giovane. D’altronde, parlare della nascita è sempre riferirsi a qualcosa di imprevedibile, ad un grande cambiamento che spinge a pensare, ma che contraddittoriamente può essere concepito sia come un nuovo inizio, come un miracolo, sia come l’inizio della fine, come uno choc, un trauma, un qualcosa che disturba e che vorrebbe essere rimosso, come l’Unheimlich freudiano. Ed è innanzitutto intorno a questa ambiguità, a questa dicotomia che si concentra l’ultimo film dell’argentino Sebastián Schindel, Crìmenes de familia.
Difatti, nella sua vita Gladys è stata più volte oggetto di femminicidio, ed il suo primo trauma le è stato causato proprio dal suo stesso padre: a causa della morte prematura di sua madre, all’età di tre anni Gladys rimane sola con suo padre, il quale, dopo averla trascurata per diversi anni, abusò del suo corpo. “Tuo padre ti ha cresciuta da sola?”, “Si…più o meno…”, “Cosa vuol dire più o meno?”, “A volte mi portava nel bosco e mi lasciava lì da sola, anche per molti giorni…”. Dopo la morte del padre, Gladys decide di fuggire con suo figlio Santiago per Buenos Aires, dove incontra Alicia, padrona di casa di una famiglia borghese argentina, la quale l’accetta come sua domestica. La decisione di far vivere con sé Gladys e suo figlio Santiago si rivela fatale per gli equilibri della famiglia borghese, composta non solo da Alicia e da suo marito Ignacio, ma anche dal loro figlio Daniel, il quale, dopo essere stato più volte recluso per femminicidio, compierà un nuovo atto di violenza sessuale, questa volta, però, sul corpo di Gladys.
Attraverso la frammistione di alcune forme generiche filmiche, soprattutto il melodramma ed il poliziesco, dalle quali Schindel estrae alcune delle loro matericità più caratteristiche, come la figura retorica dello scontro tra morale e sentimenti e l’attività processuale relativa soprattutto a Daniel, l’autore argentino destruttura la prassi, la mimesis praxeos attraverso il corpo, promuovendone una scissione metafisica con la mente. Tutti i personaggi di Crimini in famiglia sono degli spettatori di ciò che inconsapevolmente gli sta accadendo, il cui corpo non è un tutt’uno compatto con la mente in grado di modificare la situazione che li circoscrive attraverso un’azione chiara e definita. L’inazione dei corpi, la loro incapacità di agire, l’attesa di fronte agli avvenimenti: dalle mura di casa a quelle del tribunale è l’assenza dell’imporsi di una volontà certa e chiara che circoscrive Alicia e suo marito, ma soprattutto Gladys, inetta in tutto, persino a crescere suo figlio Santiago.
Alicia e Ignacio non sanno niente della gravidanza della propria governante, causatagli da Daniel prima che fosse nuovamente recluso, e la loro unica preoccupazione, almeno per tutta la prima parte del film, è quella di farlo uscire di prigione. Nella loro quotidianità i coniugi e la governante non fanno altro che promuovere atteggiamenti, come «categorie che mettono tanto il tempo dentro il corpo, quanto il pensiero dentro la vita» (Deleuze 2017, p. 224). Schindel decostruisce il mythos riducendo i propri personaggi a puri atteggiamenti corporei nei quali il pensiero affonda: non che il corpo pensi, ma ostinatamente forza a pensare ciò che si sottrae al pensiero. L’attesa per le udienze in tribunale, la stanchezza per la situazione del proprio figlio e per Gladys che comincia ad avere dolori alla pancia, la depressione della stessa governante sono tutti gestus quotidiani che rifiutano qualsiasi rapporto organico con il mondo. Ciò che risulta dalla riduzione dei propri personaggi a puri atteggiamenti corporei è quindi, innanzitutto, il gestus: uno sviluppo degli atteggiamenti stessi che opera una teatralizzazione diretta dei corpi e che avviene indipendentemente dai ruoli. L’incapacità di relazionarsi dei personaggi viene rappresentata anche dalla macchina da presa, dalla coscienza-cinepresa che rimane quasi sempre fissa e distante dai personaggi, così da circoscriverli nella loro solitudine, nel loro vuoto, come quello dell’immagine del corridoio principale della casa di Alicia, che differenzialmente si ripete per tutto il film.
A differenza dei coniugi Alicia e Ignacio, per Gladys il suo corpo equivale ad un problema: lo stato del suo corpo diventa il segno di lei, il suo essere diviso tra desiderio, rabbia ma soprattutto paura per l’incertezza verso il futuro che potrà dare ad un altro figlio a causa del suo stato di profonda povertà e per i ripetuti traumi dagli stupri subìti. Utilizzando un coltello molto affilato, Gladys inizia a farsi il segno della croce dicendo il “padre nostro” e toccandosi ripetutamente il ventre con l’utensile. Un corpo incapace di promuovere le proprie capacità motorie è, allo stesso tempo, anche un corpo che si desostanzializza, che perde la propria essenza, diventando la traccia di un corpo, una presenza-assenza, lo spettro di un corpo. Ma in Gladys il corpo fantasmatico da cui è hanté, è ossessionata, è quello di suo figlio che sta per nascere: «Essere ossessionati da un fantasma è avere la memoria di quello che non si è mai vissuto al presente, avere la memoria di ciò che, in fondo, non ha mai avuto la forma della presenza» (Derrida 1997, p. 129).
A causa dell’abuso del suo corpo da parte del padre, Gladys non ha mai vissuto un’infanzia felice. La memoria di ciò che non ha mai vissuto e il suo essere incinta a causa di una violenza, il suo Unheimlich, conduce Gladys ad un evento singolare e ad una croyance folle. L’ossessione per quel corpo fantasmatico, per quel visibile invisibile che porta dentro di sé si fa sempre più ossessiva, a tal punto che trascendendo qualsiasi raziocinio Gladys decide di liberarsi di quella presenza-assenza partorendola in casa di Alicia senza l’aiuto di nessuno e di soffocarla subito dopo la nascita, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. “Gladys, sei tu?”, “Svegliati, ho sentito dei rumori e Gladys non risponde…vai a vedere che succede”. La visibilità invisibilità perturbante del corpo spettrale incinta di Gladys, che le impedisce di farsi una certa idea, una precisa immagine sulla situazione che sta vivendo, si ripercuote nell’immagine stessa: lo sguardo dello spettatore rimane fuori da tutto ciò, non vede l’omicidio di Gladys di suo figlio, ma soltanto il corridoio vuoto che dà al bagno in cui avviene il misfatto, perché l’evento è talmente singolare che, pur esistendo solo attraverso la formalizzazione che l’immagine opera, le sfugge e le resiste continuamente, «andando oltre lo sguardo» (De Gaetano 2018, p. 63), ma anche oltre il corpo: «La propria immagine è qualcosa che il corpo costruisce, come lascia intendere il latino facies che rinvia a faccio, verbo dell’attuazione e della prassi. È una costruzione che il corpo compie con lo sguardo» (Canova 2000, p. 137).
Schindel trasfigura, o meglio buca e investe il visibile di un’invisibilità, di un punctum caecum nel visibile stesso, dimostrando come per lui il cinema abbia, anzitutto, una natura fantasmatica, come l’immagine cinematografica dia sempre da vedere allo sguardo dello spettatore, come lo abbagli di continuo, senza mai promuovere una perfetta correlazione tra vedente e visibile, tra la carne del mondo, bensì rappresentando un continuo scacco, una continua skepsis tra la percezione e la coscienza. In Crimini di famiglia l’elemento rivelatore della non omogeneità del flusso delle immagini, della loro sintesi disgiuntiva, ossia l’incapacità dell’immagine di rappresentare un evento così perturbante, nasce dalla consapevolezza della costitutiva presenza di un’invisibilità nel visibile stesso, perché così il punctum caecum «porta ancor più lontano la forza cui la visibilità dà impeto. […] Di conseguenza, il corpo dell’immagine in quanto immagine è tormentato da una certa invisibilità» (Dottorini 2013, p. 51).
Riferimenti bibliografici
G. Canova, L’alieno e il pipistrello, Bompiani, Milano 2000.
R. De Gaetano, Cinema italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini Editore, Cosenza 2018.
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017.
J. Derrida – B. Stiegler, Ecografie della televisione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.
D. Dottorini in “Ágalma. Rivista di studi culturali e di estetica” n. 26, Mimesis, Milano-Udine, ottobre 2013.
Crimini in famiglia. Regia: Sebastián Schindel; sceneggiatura: Pablo Del Teso, Sebastián Schindel; interpreti: Cecilia Roth, Miguel Ángel Solá, Sofía Gala Castiglione; produzione: Buffalo Films, Magoya Films, Tieless Media; distribuzione: Netflix; origine: Argentina; anno: 2020; durata: 99’.