Quando Aristotele, all’inizio dell’Etica nicomachea, giocando con le parole, si trova a dover mostrare come si costituisca l’èthos (con una eta iniziale), cioè il carattere, su cui si fonda la possibilità di un’etica (ethos, con una epsilon iniziale), spiega che ogni nostra tendenza stabilita non si genera se non dall’abitudine. Gli umani sono malleabili e governabili perché contraggono abitudini. Se prendete un sasso e lo gettate in aria dieci volte, cinquanta volte, cento volte, quello non acquisirà la tendenza a salire verso l’alto; diversamente, il comportamento abituale degli animali umani si costituisce proprio e solo in funzione della ripetizione (più o meno volontaria) dei loro atti. Il che significa: il nostro carattere, l’insieme dei modi in cui ci comportiamo, i nostri modi di vivere, non sono alcunché di innato, ma derivano senza residui da ciò che ci troviamo (più o meno costretti) a fare.

Altri, molto tempo dopo Aristotele, noteranno come, in fondo, questa sorta di memoria materiale che è l’abitudine non sia davvero propria solo degli umani, né solo dei viventi in generale, se è vero che persino un ottuso filo di ferro, piegato anche una volta soltanto per un certo verso, conserva memoria della postura che ha assunto. Non stupisce che una filosofia desiderosa di confrontarsi con le forme di vita contemporanee (nelle quali, nonostante gli inni continuamente elevati alla creatività e alla produzione del nuovo, giocano un ruolo primario l’automatismo, la ripetizione e la serialità) torni a interrogarsi sul ruolo dell’abitudine nella formazione delle nostre condotte. Né può meravigliare che oggi i meccanismi attraverso i quali il nostro cervello acquisisce i propri abiti mentali, plasmando le reti neurali in funzione della serie degli stimoli esterni ricevuti, siano l’oggetto di una scienza sperimentale le cui ricerche non mancano di suscitare un interesse economico e politico.

Lascia invece interdetti la facilità con cui di solito si traccia una linea di continuità che consenta di trascorrere dall’una all’altra, sorvolando non solo sulla loro discrepanza epistemologica, ma soprattutto sulla diversa funzione che esse tendono ad assumere sul campo del sapere. Non è certo sufficiente, come fa sul finale Marco Piazza, consolarsi ritagliando per la filosofia il ruolo, al contempo ancillare e pretestuoso, di giudice morale, affermando che le scienze cognitive «paiono richiedere la collaborazione della filosofia per comprendere appieno il significato da attribuire alla plasticità del nostro cervello, così da affrontare con strumenti epistemologici efficaci le implicazioni morali, politiche e giuridiche poste dalla nostra condotta di creature dell’abitudine» (Piazza 2018). Si tratta semmai di mostrare, come del resto proprio il libro di Piazza fa con dovizia di dettagli, che non si è dovuto certo attendere la nascita delle neuroscienze per comprendere lo statuto, le funzioni e gli effetti dell’abitudine sui nostri modi di pensare e sui nostri comportamenti; e, d’altra parte, che ogni “descrizione” della neurofisiologia dell’abitudine non manca di implicare una serie di decisioni logiche e ontologiche che la precedono.

Creature dell’abitudine consta di cinque capitoli, nei quali vengono disegnati, attorno ad alcuni nuclei tematici fondamentali e seguendo per lo più lo sviluppo storico, i contorni di una vera e propria “filosofia dell’abitudine”. Da Aristotele a Montaigne, da Cartesio a Maine de Biran (per nominare i riferimenti più rilevanti del testo), per l’autore si tratta innanzitutto di identificare le problematiche di fondo che l’abitudine pone al pensiero. Prima fra tutte, quella derivante dalla singolare condizione per cui nessuna abitudine, per definizione, sembra poter essere dettata dalla natura (altrimenti si tratterebbe di qualcosa come un “istinto”), eppure l’abitudine si impone spesso in maniera talmente perentoria da meritare la definizione di “seconda natura”, se non addirittura da presentarsi come la condizione del costituirsi in noi di un “carattere” duraturo. Da un lato, l’abitudine si distingue da tutto quanto è innato, ma dall’altro, le difficoltà apparentemente insormontabili che si incontrano laddove si pretenda di “cambiare abitudini” suggeriscono che la potenza con cui queste si costituiscono non è minore di quella della stessa natura.

E questo vale (seconda problematica con cui si confronta una filosofia dell’abitudine) sia sul terreno individuale, nel quale come sappiamo il carattere di ognuno, per quanto “acquisito”, non è certo modellabile a piacimento, sia sul terreno collettivo, nel quale al carattere individuale corrispondono gli usi, le consuetudini, i costumi. Qui emerge tutta la portata politica della questione dell’abitudine, che si articola in due direzioni distinte. La prima concerne la valutazione circa la passività, e dunque il carattere tipicamente conservatore, delle consuetudini sociali. La seconda riguarda la rilevanza dell’educazione nello sviluppo della personalità individuale e, di conseguenza, nella formazione dei costumi di una determinata società. Questo non è solo un cavallo di battaglia tipicamente illuministico (fondamentale, per esempio, in un autore a cui Piazza avrebbe certo potuto dedicare maggior spazio: Claude Adrien Helvétius) ma, forse soprattutto per noi, è il nucleo scottante del problema dell’abitudine.

Se c’è un senso, infatti, nel chiamare “biopolitici” i dispositivi di potere che si sono formati a partire dalla fine del XVIII secolo nei diversi campi della medicina, della psicologia, della giurisprudenza ecc., è perché essi hanno progressivamente individualizzato, interiorizzato, naturalizzato la norma dei nostri comportamenti; così che il controllo della società si realizza, per esempio, attraverso un utilizzo capillare della farmacologia, prendendo di mira ogni singolo corpo individuale. Una politica dell’abitudine avrebbe pertanto il compito di rovesciare la logica stessa di questi dispositivi, tornando a far valere il principio secondo il quale sono le norme vigenti in una determinata società a produrre, per lo più, i comportamenti individuali, e non viceversa; ovvero che non è la natura dei singoli individui viventi a nascondere il segreto dei comportamenti collettivi, ma sono questi ultimi che, per mezzo dei principi della ripetizione e dell’imitazione, si impongono sulle inclinazioni personali.

Infine, Piazza non tralascia di dedicare una parte del suo lavoro alla problematica gnoseologica, in cui l’abitudine assume una funzione centrale nell’associazione delle idee e nella produzione delle inferenze, nonché ai tentativi più radicali (come quello di Ravaisson) di fare dell’abitudine un principio ontologico funzionante a tutti i livelli della natura. Resta il dubbio che lo storico della filosofia, adottando un’impostazione che appare al contempo enciclopedica e manualistica, tanto da rischiare non di rado di scivolare nella pedanteria, nasconda in realtà (più o meno consapevolmente) i criteri che hanno guidato il suo lavoro, per esempio quello che lo ha portato ad escludere in maniera pressoché sistematica dalla sua ricerca la tradizione filosofica materialista.

Riferimenti bibliografici
M. Piazza, Creature dell’abitudine. Abito, costume, seconda natura da Aristotele alle scienze cognitive, il Mulino, Bologna 2018.

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