Cartelline, quaderni, faldoni e scatole piene di immagini, trascrizioni, rapporti ufficiali. Il patrimonio documentale di Seymour Hersh costituisce a tutti gli effetti un archivio utile a comprendere il ruolo che gli Stati Uniti hanno giocato in diversi momenti storici recenti dal massacro di Mỹ Lai del 1968 al golpe cileno del 1973, dal Watergate fino alle torture operate da militari statunitensi presso l’istituto di detenzione di Abu Ghraib in Iraq negli anni del conflitto del 2003, per arrivare al più recente sabotaggio dei gasdotti Nord Stream in Ucraina del 2022.

Si tratta di un deposito di informazioni che ha senso proprio perché è stato Hersh stesso, dapprima a cercare testimonianze e a raccoglierle, e poi a ordinarle, negli articoli così come nei libri, secondo schematizzazioni e relazioni votate a formulare una restituzione storica che fosse sempre un po’ distante rispetto a quanto era già stato rielaborato e raccontato. Distante o, meglio, al di là delle informazioni stesse che tuttavia hanno costituito il punto di partenza dal quale Hersh sempre si è mosso per avviare le ricerche e procedere nelle inchieste poi pubblicate su alcune delle più importanti testate giornalistiche internazionali, tra cui The New Yorker e London Review of Books. Pur trattandosi di un personaggio noto, che ha portato l’attenzione su storie ormai anch’esse tristemente note reinserite anche nelle narrazioni ufficiali, l’invito di Cover–Up a riflettere sul lavoro di Hersh sembra oggi più che mai cruciale.  

Il film documentario di Laura Poitras e Mark Obenhaus – realizzato dopo vent’anni dalla prima proposta di Poitras a Hersh – non risulta mai didascalico, piuttosto è significativo il modo in cui alla conversazione tra i tre si alternino senza soluzione di continuità riprese di programmi televisivi, filmati d’archivio, fotografie e altri materiali funzionali alla composizione di un quadro che trasmette la portata di una visione plurale e mai schiacciata su una sola prospettiva di racconto. Il metodo Hersh – se così si può definire – è ciò a cui oggi si dovrebbe ambire per cercare di non accettare mai in maniera acritica quanto viene divulgato attraverso i canali istituzionali, pur mantenendo ben presente che è impossibile raggiungere un livello di oggettività totale.

Ed è impossibile nella misura in cui ciò che accade è ogni volta frutto di una serie di azioni non sempre riconducibili a un solo nesso causale. In questo senso, l’avvicinamento alla realtà dei fatti è un percorso di approssimazione in eccesso che, come Hersh più volte mette in pratica, conduce a prendere in esame quante più fonti possibili per avere l’opportunità di verificare il grado di attendibilità di un oggetto quando questo è già diventato racconto. È qui il punto nodale di una pratica di scrittura che è allo stesso tempo un modo di stare al mondo opponendo contro di esso una forma di resistenza.

Gli eventi di cui Hersh si fa voce narrante, incalzato dalle domande di Poitras e Obenhaus, non hanno importanza soltanto su un piano informativo, ma assumono uno spazio maggiore di risonanza se rapportate a quei processi di “cover-up”, cioè di insabbiamento e manomissione, che hanno riguardato il discorso politico e, più in particolare, i rapporti tra sapere e potere. Se, come Michel Foucault ha limpidamente mostrato ne L’ordine del discorso (1970), «in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli», allora la vita di Hersh e l’operazione Poitras – Obenhaus possono essere di supporto per cercare di individuare, almeno parzialmente, tali procedure e imparare così a orientare meglio lo sguardo per cercare di raggiungere quanto rimane escluso dal lavoro di sintesi che ogni giorno riceviamo indietro dalle agenzie di stampa. Il sistema di sapere – per restare nel lessico foucaultiano – oggi non è più quell’insieme di conoscenze di cui si possono individuare le regole di formazione, diffusione, produzione e limitazione, essendo questo diventato, in senso concreto, il dispositivo digitale, e non più teorico, che funge da archivio del nostro tempo e da camera di eco dell’interezza del nostro sentire.  

Volendo tracciare una linea di continuità nel lavoro di Poitras, si tratta di un movimento che, dal piano fotografico-rappresentativo di All the Beauty and the Bloodshed (2022), in Cover–Up conduce a una dimensione a carattere più spiccatamente linguistico – simbolico. Se, nel primo caso, Nan Goldin sembra quasi essere definita dal gesto del fotografare che, spesso, emerge come il solo modo possibile per dirsi partecipi di un vissuto, con Hersh non si abbandona mai il piano della verbalizzazione, cioè di quella dimensione in cui tutto deve necessariamente diventare un contenuto di linguaggio, perché il linguaggio consente di ingaggiare quel confronto dialettico che genera un contenzioso, che non lascia pacificati e che, soprattutto, non ammette l’obbligatorietà della resa incondizionata.

In questo senso, le fotografie delle torture di Abu Ghraib sono anch’esse uno strumento a supporto del linguaggio, cioè di quella verità che il linguaggio dovrebbe sempre avere cura di custodire, anche se non così sempre accade. Emblematico in tale contesto è l’esito del processo a William Kelley, responsabile del documentato massacro di Mỹ Lai, condannato il 31 marzo del 1971 all’ergastolo e condotto il giorno dopo agli arresti domiciliari grazie all’intercessione di Richard Nixon, a sua volta spinto dalla pressione dell’opinione pubblica. Emblematiche sono anche le critiche a Hersh, accusato da più parti sociali di mistificare la “realtà vera”, cioè quella che è comunemente accettata come tale. Forse è questa la ragione per la quale il film sulla vita e sulle inchieste di Hersh è dedicato a chi resiste, ma anche a chi lotta e a chi cerca. 

Nell’attraversamento di questa esistenza singola, che si è fatta a tutti i livelli una prassi, ugualmente fondamentale appare l’intenzione che motiva il lavoro di Poitras e Obenhaus, che sostengono la resistenza, la lotta e la ricerca sfruttando la potenza che lo schermo cinematografico può garantire. Nel racconto delle storie di Hersh, ce n’è una che resta sullo sfondo, pur essendo evocata in alcune parti. Si tratta del genocidio di Gaza, di cui Hersh riceve informazioni attraverso alcune segnalazioni anonime e ben informate. Il fatto che questi riferimenti restino legati alle interazioni telefoniche, senza che siano accompagnati da ulteriori riflessioni in merito, è però una possibile chiave di lettura dell’intera operazione filmografica di Poitras e Obenhaus: come No Other Land (2024) e From Ground Zero (2024) hanno politicamente dimostrato con ricostruzioni circostanziali, la storia si fa attraverso documenti e i documenti sono le persone stesse. È ascoltando i loro racconti, è osservando i luoghi in cui i loro corpi si muovono che si decide da che parte stare ingaggiando una lotta che destituisce il potere di una narrazione per affermarsi in quello spazio di resistenza in cui il linguaggio si fa immagine. 

Riferimenti bibliografici

M. Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, tr. it. Einaudi, Torino 2004.

Cover-Up. Regia: Laura Poitras, Mark Obenhaus; fotografia: Mia Cioffi Henry; montaggio: Peter Bowman, Amy Foote, Laura Poitras; musica: Maya Shenfeld; interpreti: Seymour Hersh; produzione: Praxis Films, Project Mockingbird; distribuzione: mk2 Films; origine: USA; durata: 115’; anno: 2025.

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