Voi siete tra i pochi artisti in cui c’è questa coincidenza fortissima tra corpo e opera. Per voi non c’è nessuna distinzione fra le due cose. Antonio Rezza, Flavia Mastrella e la loro opera sono una cosa sola. Non sono tanti gli artisti in cui c’è questa coincidenza assoluta, e forse non è un caso che si tratti di artisti che investono così tanto fisicamente, la cui presenza corporea e fisica è così importante.
A.R. Beh Jodorowsky, ad esempio, anche Pasolini forse, e Artaud: ci sono artisti che hanno fatto coincidere opera e vita. Per quanto interessante possa essere quello che uno dice, le parole sono certamente meno interessanti rispetto alle cose che uno fa. Io mi sento inferiore rispetto a quello che faccio, vivo questa sudditanza nei confronti di me stesso, di un me stesso che, però, è a orologeria, perché io non posso sempre essere quello che sono al massimo del mio livello. Posso fare un’ora e mezza ogni sera quando lavoriamo, il resto è rappresentanza: parlare bene, descrivere e rivendicare quello che fai. È il me borghese che lo fa, che è inferiore rispetto a quello che va sul palco. Io vivo questo trauma, perché so che è bello anche incontrare le persone, dire quello che gli altri non dicono, ma è sempre inferiore a quello che noi sappiamo fare meglio. Questa stessa conversazione è un surrogato, io so quello che di irripetibile faccio. E so anche che, quando dico cose del genere e vengono scomodati dei paragoni, si tratta di un abuso da parte di chi giudica. Quando dico che l’arte non dev’essere assistita, mi dicono che parlo come Carmelo Bene (anche se lui in certi casi ha preso contributi statali, noi mai). Anche Artaud sosteneva che l’arte non deve essere assistita, anche Cioran, Canetti lo dicevano. Io penso che a livello filosofico sia necessario assomigliarsi, perché altrimenti non si creerebbero correnti di pensiero forte, ma poi, esteticamente, ognuno dev’essere diverso dagli altri. Io devo necessariamente condividere dei punti di pensiero con Artaud, e non perché lo stia citando – io non ho letto nulla di Artaud; mi rifaccio solo ad un mio convincimento morale, che devo condividere con chi l’ha pensato prima di me (perché è nato prima) e che dovrà essere condiviso con me da chi nascerà dopo. Se questo è vero, quello che noi facciamo esteticamente, però, deve essere diverso da quello che hanno fatto Artaud e Bene, da come scrivono Canetti e Cioran. L’estetica dev’essere differente, l’etica dev’essere la stessa: solo così si creano correnti di pensiero intransigenti, di cui c’è veramente bisogno. Carmelo Bene, per esempio, aveva un’idea del suo corpo diametralmente opposta a quella che ho io: non lo curava: beveva, fumava; io fumo pochissimo, non bevo, mi alleno. Lui ripudiava l’allenamento fisico, anche negli attori con cui lavorava, non chiedeva nessun tipo di forma fisica. Io so che per durare di più mi devo curare tanto. Entrambi lavoriamo sul corpo, ma ognuno ha la sua concezione: io lo curo il più possibile, lui non lo curava, ma questo non significa che il suo fosse un corpo al macello. Anche il mio è un corpo destinato al macello, ma cerco di farcelo arrivare un po’ più tardi.
Un’altra questione importante è quella che riguarda il rapporto tra voce e suono: a partire da un’esigenza pratica, il grido è una cosa presente non solo nel Cristo in gola, ma anche in altre vostre opere. Nutri una certa diffidenza nei confronti della lingua, lo dici esplicitamente, perché la lingua appartiene alla parte alta del corpo e incorre nel cliché, mentre la gola appartiene alla parte bassa: sono pochi centimetri, ma rappresentano due mondi molto diversi. Vorrei che ci dicessi qualcosa sul rapporto fra voce e suono.
A.R. Durante la pandemia ho fatto anche un disco, che non uscirà al momento perché si sono accavallati tanti progetti – lo spettacolo nuovo, il film, un libro. Ho fatto un disco gutturale. Anche le musiche del Cristo le ho composte io e, a parte quattro pezzi scritti da Pietro Pompei, anche le parti strumentali (la sigla sulle croci) le ho pensate io. È una percussione del mio corpo e di alcuni oggetti, che poi ho montato facendo un lavoro di composizione. Mi sono cimentato con la musica perché noi facciamo musica, facciamo ritmo con il teatro. Quindi ho tirato fuori dalla culla le sonorità, perché non posso cantare e non c’è bisogno di dire le cose cantando, anche se ci sono ovviamente delle eccezioni. Se non ci fosse stata la pandemia, non avrei affrontato questo isolamento e questa ricerca di un suono più cavernicolo. Groppo e galoppo: il pianto del centauro: s’intitola così il progetto del disco, che uscirà presto, spero. È tutto gutturale, non si serve della parola. Con questa esperienza ho scoperto un universo che ho poi dovuto abbandonare, perché abbiamo ricominciato a lavorare. Anche il corpo si può suonare, battendolo, come una chitarra. Naturalmente so benissimo che non sono il primo a suonare il proprio corpo: non penso di aver alcun primato in questo. Io lo suono in un certo modo e compongo una musica. Questo approccio mi interessava molto proprio per sfuggire al cappio della parola, anche se senza la parola non riuscirei a fare gli spettacoli. Ho provato a fare delle prove di uno spettacolo muto, a stare sul palco senza parole: si raggiungono anche dei livelli di comicità notevoli, ma non sono livelli di comicità infernale come quelli che può garantire la parola. Non si riesce a raggiungere quello stato diabolico che soltanto la parola garantisce attraverso la scomposizione del significato; o almeno non ci sono ancora riuscito. Se vedo un film di Buster Keaton – che preferisco a Chaplin, che pure mi piace tantissimo, ma trovo Keaton più puro – posso ridere, ma non rido a crepapelle. Anche vedendo Chaplin rido, ma non mi agito. Durante i nostri spettacoli vedo la gente che si agita, perché chiaramente la parola e la scomposizione di ogni connessione porta la gente a muoversi in quel modo, quasi invasata come chi sta sul palco. Nel muto non ho trovato mai qualcosa che mi facesse ridere in modo così perverso.
Il corpo all’interno della scena e il corpo della scena sono una questione che probabilmente attiene più al ruolo di Flavia Mastrella all’interno del vostro duo. Mi interesserebbe che ci parlaste della scomposizione del corpo. In molti spettacoli che avete fatto in questi anni il corpo compare a pezzi e, in fondo, anche nelle interviste di Troppolitani c’è una sorta di scomposizione e sostituzione del corpo alla macchina. Il microfono è il braccio, nella prima puntata, poi diventerà il dito.
F.M. Sì, il braccio bionico; eravamo alla fine degli anni novanta e già si cominciava a parlare di corpi bionici. Abbiamo deciso di utilizzare quel tipo di microfono per non avere una risposta codificata. Io studio attentamente la comunicazione: se tu proponi alla gente un’estetica che già conosce tende a imitare quello che ha visto fare in quel tipo di situazione estetica. Quindi se gli dai il microfono a gelato loro diventano subito televisivi. Con questo sistema non diventavano televisivi, anzi, pensavano che noi non fossimo professionisti; questo era molto importante perché si lasciavano andare, ci trattavano anche male: nelle interviste molto spesso le persone ci trattano come bambini. Noi, poi, eravamo abbastanza diversi rispetto alla classica estetica RAI, e infatti abbiamo avuto dei risultati sorprendenti. Un po’, sicuramente, perché il corpo di Antonio lacera la distanza, ha un corpo tradizionalmente simpatico e aggressivo che prende molto l’attenzione, e il suo modo di parlare incalzante ipnotizza i suoi interlocutori, li stordisce e, a quel punto, abbiamo un margine d’azione molto più ampio. Quei lavori sono molto elaborati in fase di montaggio, e col montaggio tu puoi far dire ciò che vuoi alle persone coinvolte.
E quando fate un lavoro come quello dello spettacolo IO, che tipo di studio fai sul corpo nella creazione di habitat di quel tipo?
F.M. Io creo l’habitat senza sapere che cosa Antonio ci farà dentro, perché non sono una scenografa: creo degli ambienti da vivere. Secondo me una persona che fa teatro ha bisogno ogni volta di una nuova vita per rinnovarsi; creo, quindi, questi ambienti come se fossero dei piccoli mondi, e in questi piccoli mondi nascondo delle possibilità che poi Antonio va a scoprire. Normalmente gli dico grosso modo come si fa, ma non gli dico mai tutto perché altrimenti lui fa il contrario. Conviene dirgli quello che non vuoi che faccia, di modo che lui finisca col fare quello che avevi previsto in senso estetico. IO è il secondo lavoro che abbiamo fatto, e si basa sulla frammentazione del corpo e della storia: le storie sono frammentarie, sono quadri di scena composti da scenografia e architettura, che diventano costume e si muovono sulla scena. Vengono, poi, gettati nell’oscurità del teatro, lasciando delle macchie di colore. Con IO è la prima volta che sperimentiamo questa invasione della scena. In Pitecus, lo spettacolo precedente, c’è più materiale ispirato a Burri, Fontana… è ancora un po’ rigido. È molto ispirato alle tombe medievali di Santa Maria degli Angeli e al teatro medievale che usava queste stoffe.
Riferimenti bibliografici
S.J. Lec, Pensieri spettinati, Bompiani, Milano 2017.
F. Mastrella F., A. Rezza, Clamori al vento. L’arte, la vita, i miracoli, il Saggiatore, Milano 2014.
*Il testo pubblicato è un estratto della Conversazione con Antonio Rezza e Flavia Mastrella contenuto in Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni, n. 49, Pellegrini Editore.