Nel tuo cinema accade spesso che tu scelga di indagare la Storia non secondo una linearità cronologica, bensì decostruendo il suo andamento orizzontale, affrontandola a partire dalle sue più profonde stratificazioni. Affondare archeologicamente nella Storia diventa dunque un vero e proprio atto di scavo nel tempo, non più vincolato ad un movimento “in avanti” bensì libero di aprirsi a gesti di sovrapposizioni, dilatazioni, condensazioni che operano sulle epoche storiche in senso anacronistico. Penso su tutti a Martin Eden (2019), ma in quasi tutti i tuoi lavori la ricostruzione storica sembra seguire un metodo archeologico e discontinuo più che lineare. 

Ho dovuto imparare a lavorare con i materiali che avevo, a volte erano repertori, a volte erano pellicole scadute, a volte erano riprese finzionali. Gioco con i pastiche espressivi perché quelli sono gli strumenti, c’è chi si può permettere i carrelli e i grandi set, io non potevo permettermi tutto questo e ho imparato a lavorare con l’archivio. L’archivio è più potente di qualsiasi atto finzionale, e l’atto finzionale diventa potente quando si trasforma esso stesso in archivio. Se paragoniamo l’archivio ad una ricostruzione finzionale l’archivio vincerà sempre, perché rappresenta direttamente la Storia. Quello che io faccio attraverso l’archivio è umilmente e con rispetto manipolarla, farla rivivere in un altro modo. Martin Eden è pieno di immagini d’archivio usate semplicemente come transizione da una scena all’altra, e risultano potentissime perché ho usato archivi veri che raccontano la Napoli di quarant’anni fa, lavorando costantemente sul contrappunto tra presente e passato, ad esempio l’aspetto di una volta delle strade di San Gregorio o San Biagio dei librai, e permettendo così allo spettatore di avere vivido davanti agli occhi il cambiamento della città. Il nostro bel mondo è cambiato.

Potente per te è quindi soprattutto l’atto di risignificazione attraverso cui l’archivio può operare sulla Storia, l’intervallo temporale che crei tra passato e presente.

Io forse ci ho lavorato un po’ più degli altri. A volte per esigenza, altre questo approccio è legato all’intuito, all’ingegno, alla squadra con cui lavori che ti permette di andare avanti e costruire un metodo. Ciascuno utilizza l’archivio come vuole. Quello che interessa me è continuare a sperimentare, anche se ho il dubbio di ripercorrere all’inverso sempre lo stesso percorso, nel senso che mi sento più archivista che cineasta, diciamo un artigiano del cinema. Di sicuro ho voglia però di reinventarmi ogni volta. Questo si può fare anche lavorando con la finzione, però mettendole a servizio altri strumenti. 
Io mischio sempre tutto, appena posso. L’ho sempre fatto. Perché non mi voglio collocare nel presente, che mi fa schifo. Il presente è orribile. Immaginare il passato è più comodo, come diceva Ophüls, sei più a tuo agio. Il futuro è un’utopia, anche lì si tratta di immaginazione. Il presente è inafferrabile in quanto tale. Come per il treno, un vettore che ti porta lontano, non esiste il presente. C’è quello che lasci e quello verso cui vai, si tratta di un transito. Io non posso stare nel tempo presente, perché lo faccio semmai attraverso il documentario. Se deve essere finzione cosa mi interessa raccontare il presente? Se ho necessità di raccontare il presente posso realizzare una bella inchiesta, un reportage, come quando ero ragazzo. Lì vince Joris Ivens, noi abbiamo avuto grandi registi che sono serviti precisamente a questo.

Ivens però lavora profondamente sulla forma. John Grierson anzi lo accusava di dar vita ad una “forma bella” che rischiava di tradire la consegna più importante del documentario, quella di informare di un fatto.

Ma quella per me è la base, io non considero nemmeno chi non sa filmare. Termini come “documentarista” e “reale” hanno perso di senso. Si monta, si manipola in ogni caso nell’atto di filmare, anche la violenza e la pornografia di oggi. Casomai se si vuole parlare di contenuti seri e non di forma parliamo di un regista come Robert Bresson. 

A te quindi filmare piace quanto creare pastiche.

Innanzitutto mi diverto perché sono anche direttore della fotografia, quindi il mio sguardo è sempre in macchina. Ed è solo per questo che sono riuscito a fare i film che ho fatto. Così ho guadagnato la fiducia di chi all’inizio non mi dava due lire e mi diceva “ma dove vai che non sei mai stato su un set”: mettendomi in macchina e girando documentari. Ci si adatta. 
L’episodio de La campana nel film di Tarkovskij su Rublev, Andrej Rublëv, ci racconta proprio questo: avere il coraggio di fare qualcosa e sorprendersi ad imparare. Quel finale è per me importantissimo, tra i finali che hanno lasciato in me un seme. In quel caso il giovane che non conosce il segreto della campana si mette in gioco in un mondo dove regna la paura, in cui si punta sempre il dito contro il carnefice, quando invece è interessante interrogare le vittime. 
Tornando al presente, l’unica strada per arrivarci è l’atto della documentazione attraverso un formato come quello del reportage. E poi questo è quello che diventa archivio al servizio di chi c’è dopo. 

In un film come Bella e perduta (2015) però tu parti documentando il presente e poi vai altrove. La morte di Tommaso è l’imprevisto radicale che costringe la forma ad «evolvere fuori di sé», riprendendo sempre un’espressione griersoniana. Dal documentario di inchiesta alla fiaba del bufalo parlante accompagnato da Pulcinella nel suo viaggio attraverso le campagne campane.

Certo, lì c’è una manipolazione mia. Io lì mi faccio tra virgolette “gli affari miei”, diciamo che faccio l’artista. L’importante però è non perdere il proprio mandato. Quando ci metto troppo di mio mi vergogno, potrei essere tacciato di vanità. Avendo un’educazione, una formazione di un certo tipo non mi abbandono totalmente alle mie velleità di artista. Il punto è: io vi do questo ma mi do anche la libertà di fare quest’altro. 

Magari anzi in questo modo la realtà respira di più, e in forza di questo respiro la sua autenticazione risulta più profonda.

È il binomio Hemingway/Proust. Proust fa un giro enorme per entrare dalla porta, mentre Hemingway ti guarda dalla finestra, nel senso che Hemingway ti racconta delle cose personali trasponendole attraverso il racconto stesso. Questo è molto interessante. Non farò mai un film sulla mia storia personale, me ne vergognerei. Non mi interessa il cosiddetto “cinema terapeutico”. Mi fa pensare ai parnassiani, all’arte fine a se stessa. Godard diceva “Facciamo il cinema per curare noi stessi”: è vero, lo faccio anche io, ma nel mentre metto il mio racconto al servizio di una comunità. Sono scelte che certo possono cambiare, si possono sviluppare, ma non devono essere alterate nemmeno in modo radicale. Bisogna avere le idee chiare quando si affronta un film. Per me poi fare un film è più un fatto pratico, direi quasi atletico. Un cinema di pancia, anche se un pensiero dietro c’è sempre.

La Storia ha il potere di sedimentarsi anche nei luoghi. Tu con i tuoi film ne hai attraversati tanti, forse però solo con Le vele scarlatte hai dovuto confrontarti in modo diretto con una terra non tua (la Normandia), paesaggi distanti dai nostri, tradizioni, e quindi gesti, sguardi, differenti, anche nei tuoi attori.

Ho girato Le vele scarlatte (2022) perché mi è stato chiesto di fare un film lineare. Mi sono messo in gioco a fare un altro cinema, forse anche distante dal mio. Se il film fosse ambientato nelle campagne dei Mazzoni dove ho girato Bella e perduta sarebbe stato tutto un altro film. Ho fatto di tutto per fare un film che mi appartenesse, ma rimane un film per i francesi girato con lo sfondo dei paesaggi francesi, con volti di attori francesi. Mi sono interrogato, all’inizio ho pensato di portare il mio metodo in un Paese straniero, ma in fondo quando lo guardo vedo un film francese. Certo io ho un’idea di continuazione territoriale, credo in una grande Europa che va da Lisbona a Vladivostok, quindi è chiaro che sento in qualche modo la Francia familiare. Ho deciso di dedicarmi più ai miei attori, ai loro corpi. A volte gli parlavo persino in napoletano e mi capivano lo stesso. 

In questo senso il tuo legame con il Mezzogiorno credo sia fondamentale: una terra spesso di emarginazione e subalternità, ma anche di rivalsa e di lotta, combattute con una forza e una creatività difficili da eguagliare.

Certo, nel caso dell’adattamento da London, ad esempio, cosa andavo a girare a fare in America? Il mio è un Martin Eden campagnolo, un adattamento forse un po’ maldestro come quello del romanzo di Grin. Nel caso di Martin Eden ho girato nella mia terra, è un film italiano ma è al contempo un film universale. Parla del sud ma il sud è più in generale il sud del mondo. Il sud puoi trovarlo ovunque. Tutti i sud si somigliano un po’. Forse perché spesso c’è il mare. Anche Genova, dove ho girato La bocca del lupo (2010), a suo modo è a sud. Le vele scarlatte è un film che si svolge a nord ma che con il cuore guarda a sud. A sud si guarda verso l’orizzonte, verso la bellezza, forse a nord si guarda solo quando si vuole scappare. Il concetto di meridione si può interpretare in tanti modi diversi. Il mio meridione sono mia madre, mio padre, le mie campagne. La storia del mezzogiorno è una questione irrisolta, che appartiene un po’ a tutti. Per me i Borboni non sono mai andati via dal sud. Le mie storie continuano a nascere lì. Non a caso i prossimi progetti hanno al centro la vita di Eleonora Duse e quella di Carlo Pisacane.

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