In occasione del passaggio alla 81. Mostra del Cinema di Venezia del nuovo cortometraggio animato di Roberto Catani, Il burattino e la balena (2024) – una interpretazione personale della storia di Pinocchio – pubblichiamo il resoconto di un incontro avuto con l’animatore marchigiano durante la fase di realizzazione di questo suo ultimo progetto, così da parlare del suo lavoro creativo con un focus su determinati aspetti riconducibili al suo linguaggio. Di seguito la sintesi della conversazione avuta con Catani, rivista alla luce delle esigenze editoriali e strutturata per temi invece che per domande e risposte. La scelta di optare per questa riduzione è stata concordata con lo stesso intervistato. 

L’animatore “impuro”  
Sono uscito dall’Istituto Statale d’Arte, scuola del libro di Urbino come disegnatore nel 1985. Ho frequentato la sezione di Disegno Animato, e nonostante i nostri docenti non si siano mai soffermati troppo sulla tecnica pura dell’animazione tradizionale, ci hanno dato una grande educazione all’immagine. Si può dire allora che noi nasciamo da una scuola di disegno, che poi è diventato disegno animato, ma senza portare dentro quella cultura che è propria della tecnica riconducibile all’animazione. Si pensava al bel disegno in movimento. Quindi, ecco, in fondo in fondo io non nasco come animatore. Dovrei dire che esco da una scuola di disegno. Poi, per me, animare significa dare un’anima a un oggetto che un’anima non ce l’ha. Ma quell’anima è intesa come vita. Quindi significa sviluppare un discorso visivo attraverso immagini non statiche. Cioè, il valore del racconto e della narrazione non sta tanto nell’immagine statica ma nella successione di una serie di immagini che potremmo definire in movimento perché quel movimento è esso stesso narrazione. Non è solo un espediente tecnico per far in modo che un determinato soggetto si sposti nello spazio, da un punto A ad un punto B. 

Dalla composizione al piano sequenza 
Io lavoro molto sulla trasformazione, la manipolazione degli oggetti che possono essere contenuti in un’immagine. Mi piace tantissimo giocare con gli elementi del campo visivo. Mi piace prendere spunto da un elemento che casualmente mi ispira e, da lì, parto per andare verso altre direzioni, anche non previste. Io cerco di fondere insieme i vari elementi e cerco di dare un equilibrio, senza far emergere una tendenza invece di un’altra. Tutto quello che entra nelle mie immagini ha la stessa valenza: narrativa, suggestiva, estetica ecc. E quindi non posso annullarne una per mettere in evidenza un’altra. Cerco di mettere in evidenza tutto allo stesso modo. Poi mi piace anche giocare con la confusione. Quindi: distogliere lo sguardo. Confondere. A Urbino ci hanno fatto innamorare di Dedalo (Manfredi, 1977), ma a metà degli anni ottanta escono Lucidi folli (Ferrara, 1986) e altri film della sua autrice che si basano sul piano sequenza. Io mi sono innamorato del piano sequenza attraverso il lavoro di Ursula Ferrara. Poi ne sono arrivati altri dopo di me ad utilizzare il piano sequenza. Non ho inventato nulla. Ne ho fatto per un certo periodo la mia cifra perché mi piaceva raccontare in quel modo. Diciamo che mi permette di seguire il flusso dei miei pensieri. Nel mio film Per tutta la vita (2018) c’è, per esempio, una scena con una fila di alberi, con i due personaggi in bicicletta, e io in quel momento alzo l’inquadratura da orizzontale a verticale, e tutti gli alberi diventano dei cerchiolini, con un’ombra lunga. E quei cerchiolini diventano poi bottoni con l’asola. È stata una immagine che ho inventato “giocando”. Ho quindi cambiato la narrazione per arrivare lì. Dovevo arrivare a una ragazza, ma la transizione è stata questa. Ecco: io mi muovo su questa dimensione del gioco, del tenere tutto a galla. Quando costruisco un disegno, tutto ha la stessa importanza. Non è, che so, la storia di un Pollicino qualsiasi, dove il protagonista ha per forza importanza maggiore rispetto al resto che “funge” da sfondo, supporto. 

Le fasi del lavoro 
Inizio dal disegno. Ho un tavolo grande che riempio di disegni, creo una specie di mappa delle idee che mi aiuta a definire il progetto, un po’ come stabilire il sentiero da seguire. Quindi lavoro alla elaborazione delle immagini. Lavorando sul piano sequenza, come ho fatto per quasi tutti i miei film, parto dal primo disegno e vado avanti. Fino alla fine. Con tutti gli incidenti di percorso che ci sono in mezzo. Poi, una volta composto il movimento, il piano sequenza, tutto quanto, filmo il materiale al banco verticale, collegato a una fotocamera digitale che a sua volta è collegata a un computer in cui c’è un software per l’acquisizione frame by frame. Quindi acquisisco, verifico che il movimento sia consono all’idea che mi ero fatto, e se è consono, passo alla coloritura. La fase della coloritura varia tantissimo. Posso arrivare anche a delle scene complicatissime. Per esempio, la primissima scena di Per tutta la vita, con il personaggio femminile affacciato alla finestra, è stata di ventun passaggi di colore per foglio. In altre, i passaggi sono invece tre, quattro. Mai sotto questo numero direi. C’è il disegno, c’è una prima stesura del colore a gesso, c’è l’oilbar trasparente, poi un ritorno col gesso, i pastelli, la punta secca ecc. tutto rielaborato con le mani. Sempre. Quanto ai gessi, quelli che uso sono Schmincke. Devo dire che è una marca che offre una vasta tonalità di colori e grande brillantezza. In più sono molto morbidi. 

Il movimento tra mimesi e gestualità
Come disegnatore, non ritengo di avere le conoscenze sufficienti per affrontare l’animazione pura, quindi dico che io, davvero, non so animare tutto. E nemmeno mi interessa saperlo fare. Voglio solo animare le mie idee. E se dentro queste idee ci sono delle forme che non so animare, beh, devo intervenire in modo alternativo. Per esempio con il rotoscopio, che risolve certi problemi tecnici e velocizza il lavoro. Poi la base disegnata la “perdo”, dal momento che uso una tecnica di coloritura molto ricca, e quando ho dato una serie di strati di colore sul foglio, il segno della matita spesso si perde. Se vuoi, diciamo che lo recupero un po’ a memoria. Inoltre, tieni presente che nei miei disegni, come in altri di autori e autrici della scuola urbinate, tutto è colorato sullo stesso foglio: fondale, personaggi, ecc. Se ci sono mille e seicento fogli di un’animazione, ci sono mille e seicento fogli colorati in tutte le loro parti, foglio per foglio, dal fondale ai vari soggetti che stanno in quella immagine. In più, io coloro con le mani, un’abitudine che nasce dalla mia formazione. Quando avevo ventidue anni, Ivan Graziani venne alla Scuola d’arte. Io ero un giovanissimo insegnante del primo anno. Graziani chiese a me e a un mio collega, Stefano Franceschetti, di fare delle piccole parti di animazione di un videoclip di un suo pezzo, La sposa bambina. Ci chiese proprio: «Voglio che voi riproduciate i quadri di Chagall e li mettiate in movimento». Dopo aver sperimentato una serie di cose, scegliemmo la tecnica dei gessi – in quell’occasione si trattava di gessi scolastici – e lì mi resi conto che col gesso riuscivo a velocizzare la stesura del colore, ottenendo più o meno lo stesso risultato che prima avevo con i pastelli a olio. Così è nata la cosa. Oggi uso i polpastrelli della mano destra – a volte, quando è necessario, anche quelli della sinistra – sostanzialmente per la prima e la terza fase della coloritura. Poi c’è da aggiungere che io i colori li mescolo sempre. 

Il burattino e la balena. Regia: Roberto Catani; sceneggiatura: Roberto Catani; fotografia: Roberto Catani; montaggio: Roberto Catani, Mariangela Malvaso; musiche: Enrico Ascoli; produzione: Miyu Productions (Emmanuel-Alain Raynal, Pierre Baussaron), Withstand Film (Davide Ferazza, Alessandro Giorgio); origine: Francia, Italia; durata: 8′; anno: 2024.

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