Per secoli, a fasi alterne, l’uomo ha intrattenuto un certo rapporto con l’idea di mondo attraverso l’arte. Anche nel Novecento, nonostante alcune tendenze meta-riflessive (le avanguardie) oppure ideologiche (politicizzazione dell’arte contro l’estetizzazione della politica), mentre in ombra aleggiavano possibili nemesi (la bomba atomica). Ma oggi? L’impressione è che l’informatizzazione e la concettualizzazione siano ovunque nell’ambito delle discipline estetiche contemporanee, a discapito della presenza di atti creativi in grado di fabbricare nuovi immaginari. Ci sono però eccezioni. L’animazione, per esempio.
Possono piacere o non piacere certe cose, ma è indubbio che ci possano essere casi da considerare alla maniera di certe visioni del mondo di autori contemporanei del cinema dal vivo. Anzi, se si vuole, la specificità del linguaggio dell’animazione induce forse a pensare che creare mondi sia qualcosa di intimamente inerente alle visione animata, che si potrebbe definire per sua natura fantastica, di un fantastico che non è altro che uno sguardo diverso sulla realtà, uno sguardo che la re-immagina. Di conseguenza, di fronte a prodotti animati di genere fantastico (cinema o serie televisivi), si potrebbe parlare di una specie di animazione al quadrato, dove la narrazione giustificherebbe scelte visive e sonore più innovative del solito. E questo è sicuramente il caso di Made in Abyss. Alla base c’è il manga omonimo, a firma di Akihito Tsukushi. La serie è adattata dallo studio d’animazione giapponese Kinema Citrus. Ad oggi, conta di due stagioni televisive. La prima è di 13 episodi, andata in onda nel 2017; la seconda finita da pochissimo, di 12 episodi. Ci sono poi tre lungometraggi: i primi due funzionano da ricapitolazione della prima stagione; il terzo, Fukaki Tamashi no Reimei, adatta invece la storia originale che va dalla fine della prima stagione all’inizio della seconda.
Al centro della storia di Made in Abyss c’è una ragazzina, Riko. Lei vive nell’orfanotrofio di Orth, città che dà su una voragine enorme, il cui nome è appunto Abisso. È uno spazio la cui profondità è ignota e che molti esploratori ed esploratrici cercano di scoprire e mappare, considerando che in questi territori sconosciuti si trovano cimeli magici di valore che, nel caso, si possono rivendere in superficie. Ogni strato però ha una flora e una fauna a sé stanti, diverse tanto da quelle degli altri strati quanto da quelle della superficie. Inoltre, più si va in profondità, più è difficile ritornare per gli esseri umani: superato un certo punto, i sintomi della risalita renderebbero impossibile il ritorno. Fra coloro in grado di resistere più a lungo a questa situazione ci sono i fischietti bianchi. Sono cinque, inclusa la madre di Riko, Lyza. E sono tutti, da tempo, dentro l’Abisso.
La bambina sogna di essere come Lyza. Si allena, persevera. Un giorno, la vediamo alle prese con il primo strato della voragine, attaccata da un mostro e salvata da un ragazzino-robot, Reg, dotato di un braccio-arma, il “Cannone Crematorio”, cimelio magico fra i più potenti. Reg entrerà poi a far parte dell’orfanotrofio. La vita scorrerà monotona fino alla ricezione di un messaggio proprio dall’Abisso. Un invito a scendere in quella profondità. Per Riko, l’invito è della madre, e per questo decide di partire per andarla a cercare lì, nel profondo. L’accompagnerà proprio il ragazzino-robot. Nella prima stagione televisiva, la loro discesa contempla dei faccia a faccia con alcuni personaggi memorabili, per esempio Ozen l’“inamovibile”, fischietto bianco e donna dalla cui voce conosciamo qualcosa di più su Riko e la madre. Oppure Nanachi, che poi affiancherà Riko e Reg nel proseguo del viaggio. Sfideranno prima un secondo fischietto bianco, Bondold (l’argomento del terzo film del franchise) e giungeranno poi al sesto strato, “la capitale del non ritorno” (la seconda stagione televisiva).
In continuità con la prima stagione televisiva e anche con il terzo film, ma in modo forse più profondo e radicale, la seconda stagione di Made in Abyss rappresenta uno degli esempi migliori di quello che si può fare oggi in animazione in merito a ciò che viene definito come worldbuilding, sempre di più una categoria estetica nell’ambito creativo della cultura popolare contemporanea. Ora, di che cosa si tratterebbe? La parola in sé può essere tradotta letteralmente. Si può quindi parlare di “creazione di un mondo” o di “più mondi”, spesso intesi in una prospettiva fantastica. Made in Abyss non fa eccezione. Per esempio, per Riko, Reg e Nanachi, l’ingresso nella capitale del non ritorno si rivelerà una esperienza estrema. In questo contesto, tacendo della storia e dei suoi risvolti, uno degli aspetti più interessanti è senza dubbio quello della genesi della città, tanto profondamente umana quanto mostruosa, degna della poetica di David Cronenberg ma con in più, per così dire, un forte senso di spiazzamento estetico.
Perché questo? Perché Made in Abyss si presenta come un racconto adulto – serio, violento – però molto smussato o se si vuole parzialmente occultato da forme superficialmente innocue. Riko, Reg, Nanachi – e poi un quarto personaggio, bellissimo, Faputa, gran protagonista della seconda stagione – hanno fattezze bambine. Il loro “design” strizza l’occhio all’estetica dei “personaggi chibi”, un fenomeno commerciale dentro la cultura della “carineria” nipponica (in slang, “chibi” indicherebbe una persona bassa o un bambino piccolo). Sarebbero dunque figure innocue, ma le loro vicende avranno a che fare con situazioni tutt’altro che rassicuranti. Questo contrasto si esemplifica proprio nello sfondo della storia della seconda stagione, un villaggio che in un certo senso sembra far trapelare una sorta di inaspettata eco dantesca di “città dolente” (e Dante sembra essere proprio un riferimento possibile nella strutturazione dell’Abisso, simile all’Inferno del poeta).
Senza svelare troppo, il worldbuilding della seconda stagione di Made in Abyss potrebbe essere sintetizzato nel modo seguente: la costruzione di un mondo – quello del villaggio (“il villaggio dei residui”) – in cui tutto è transitorio. Un elemento su tutti: i suoi abitanti. Sono esploratori di un viaggio avvenuto prima della fondazione di Orth: un gruppo di persone giunte in loco alla ricerca di una fantomatica città d’oro. Dopo una serie di eventi, tutti loro perderanno la propria forma umana per assumere quella dei loro desideri. Il concetto di scambio e di valore saranno alla base della vita sociale nel villaggio, ma rifletteranno – per così dire – solo un eco dell’umano, lasciando tutto il resto fuori campo, almeno fino all’arrivo di Riko, Reg e Nanachi.
Il sistema del villaggio entrerà poi progressivamente in crisi. La comparsa di Faputa influenzerà di molto l’avanzata del caos; nello stesso tempo però, sarà fondamentale per una risoluzione degli eventi. In tutto questo, rimane costante quanto anticipato: la violenza passa attraverso immagini i cui colori e le cui figure sono facilmente associabili ad un gusto che si direbbe “infantile”, specialmente in materia di fantastico. In un certo senso, si potrebbe dire che questo è uno dei tratti stilistici che fanno di Made in Abyss qualcosa di unico. Anche in relazione ad altri esempi simili nell’animazione, e non solo. Spingendosi oltre, il confronto potrebbe cioè inglobare pure una certa letteratura classica dell’infanzia. Come nel caso dell’Inferno di Dante per la struttura della voragine di Orth, si possono facilmente trovare echi fiabeschi nella storia di Akihito Tsukushi e quindi nell’adattamento della serie anime, ma sono gli sviluppi poi a differire, dato che in Made in Abyss la narrazione mostra tutta una serie di mondi – ognuna per strato dell’Abisso – in cui la giustapposizione inedita di elementi magari più familiari allo spettatore è l’effetto sorpresa, ciò che da all’immagine l’impressione di mondo.
La prima e la seconda stagione di Made in Abyss sono disponibili su Amazon Prime.
Made in Abyss. Ideatore: Akihito Tsukushi; regia: Masayuki Kojima; produzione: Kinema Citrus; distribuzione: VVVVID, Prime Video; origine: Giappone; anno: 2017-in corso.