Nonostante negli ultimi anni nuove epistemologie e approcci abbiano scosso le discipline umanistiche – dello spettacolo, della danza e della performance –, spesso si riscontra una certa resistenza da parte di studiose e studiosi ad abbracciarle. In parallelo, si assiste invece alla proliferazione impropria del termine “performance” che va a coprire, opacizzandone qualsiasi specificità, le pratiche più diverse. Non è casuale quindi che l’uso e l’abuso di questo termine rimangano ancora una questione delicata e poco affrontata in ambito teatrale e artistico.

Sempre più, così, si corre il rischio di appiattire la molteplicità delle declinazioni delle pratiche, rendendole improduttive. Nei libri di storia dell’arte, ogni azione agita da un artista viene etichettata come “performance art” senza distinguo e nei saggi di teatro sempre più dilagante è il termine “performing arts”. Dai secondi anni sessanta, in Italia si sono susseguiti molti eventi basati sulla presentazione di azioni in prima persona che tuttavia non andrebbero considerati, come invece spesso accade, in blocco e aprioristicamente “performance art”.

Compito della ricerca, dunque, non dovrebbe più essere quello di occuparsi di indagini analitiche sui linguaggi, ma di far interagire le pratiche con nuovi sguardi disciplinari ed epistemologie capaci di illuminare – per riprendere Nanni Balestrini – il “linguaggio anemizzato e amorfo […] da un’angolazione insolita fatti e pensieri”. 

Il volume Comportamento Performance Art Nuova Performance: L’azione tra le arti in Italia (1960-1982) (Bulzoni Editore, Roma 2024) di Daniele Vergni fa esattamente questa operazione, conducendo una critica approfondita delle trasformazioni della performance art in Italia tra gli anni sessanta e ottanta nelle pieghe dei silenzi documentali, sulle tracce degli archivi privati, affettivi, epidermici, orali. 

La ricerca si concentra non solo sulla disarticolazione dei linguaggi ma soprattutto sulle intenzionalità delle prassi, ossia nei modi in cui materialmente agiscono, producono e coinvolgono i contesti. Vengono quindi ripercorsi tre decenni, dissotterrando storie, ritracciando peculiarità e interferenze fino ad ora mai affiorate negli studi, dissestando la “Storia” della performance art in Italia, attraverso le lenti delle nuove epistemologie, facendo così emergerne le “storie minori”, marginali e marginalizzate, plurali.

Il neomaterialismo, i queer studies, antirazzisti, femministi e antispecisti permettono così di esplorare le dinamiche terminologiche e le specificità delle pratiche artistiche di questo periodo, alla ricerca dei “piccoli slittamenti di senso e variazioni nei modi di praticarle”. Sono i modi d’essere delle pratiche – non i materiali e i linguaggi – a fare di qualcosa (un oggetto, un evento) qualcosa di artistico, come ci ricorda Jacques Rancière. La domanda che viene sollecitata da Vergni non è il “cosa?” dei contenutisti analitici, e neppure il “come?” dei formal-strutturalisti, ma “cosa fanno e possono queste pratiche?”. Vergni mette in discussione la concezione unitaria delle pratiche artistiche e riconosce la loro interdipendenza con l’osservatore.  

E allora cosa è opera, cos’è documento, cos’è azione? Come insegna il neomaterialismo: siamo sempre posizionati, ed osservare un oggetto modifica tanto l’oggetto quanto l’osservatore, creando una relazione di interdipendenza. Ancora una volta bisogna quindi ricordare come le prospettive critico-analitiche debbano vibrare e interagire con le nuove epistemologie, così da rovesciare lo sguardo critico, ormai fossilizzato, attorno ad alcuni eventi considerati ancora oggi “punti di rottura imprescindibili della storia dell’arte”.

Un esempio illuminante è l’esperienza di Eliseo Mattiacci, che nel 1971 espone 12 radiografie del proprio corpo presso la galleria Toselli di Milano. Un gesto che, come evidenziato da Vergni, non compare mai negli studi sulla performance art, mentre nei saggi e negli articoli di storia dell’arte viene riportato approssimativamente come “opera d’arte”, una reductio in nome del rigorismo disciplinare che non tiene conto dell’esperienza performativa vissuta dall’artista e poi documentata. Vergni evidenzia non solo il piano dei linguaggi e delle terminologie ma soprattutto quello delle pratiche, affinché venga rimesso al centro il primato dell’esperienza e dell’osservatore che sempre implica un posizionamento.

Anche le azioni Sleep Walkers di Simone Forti nell’ottobre del 1968 presso la Galleria L’Attico a Roma di Fabio Sargentini e Lo Zodiaco di Gino De Dominicis dal 4 all’8 aprile del 1970 sono state (e spesso continuano ad essere) lette come declinazioni politiche del fare artistico. Ma ci sono importanti differenze che vanno evidenziate. Se lette con una lente antispecista è chiaro che Forti, a differenza di De Dominicis, denuncia con il suo corpo la reclusione degli animali negli zoo, assumendo una posizione esperienziale che rimanda a quella dell’animale, mentre De Dominicis utilizza direttamente gli animali sfruttandoli in modo funzionale – affittando un leone in gabbia per cinque giorni. Da un lato, dunque, il gesto come azione politica e di critica ai sistemi di coercizione – dall’altro la sua perpetrazione. Ancora una volta, un invito a riflettere sui modi delle pratiche, sono questi ad essere politici

Significative, inoltre, nella ricostruzione di Vergni, sono le performance di Giuseppe Desiato, artista napoletano il cui lavoro è stato a lungo trascurato. Desiato, attraverso una logica degli affetti, si avvicina alle comunità omosessuale e trans di Napoli, creando azioni basate sulla condivisione e la vicinanza piuttosto che sull’invenzione artistica tradizionale. Questa scelta di posizionamento permette di esplorare nuove forme di soggettivazione e aggregazione, aprendo spazi per le “storie minori” che sfidano la narrazione dominante della Storia.

Questi “spazi per le storie minori” sono anche gli spazi occupati e autogestiti – fuori dai circuiti classici delle gallerie private e per questo dimenticati – che sul finire degli anni settanta iniziano a proliferare. Vergni traccia una topografia di luoghi alternativi che ospitano pratiche marginali e disallineate. Tra questi ricordiamo il club occupato Sixto/Notes a Milano, Zona Art Space di Firenze, la festa comunitaria dei Festival di Cavriago, il Centro Uh! a Genova che organizzava performance nell’autopark di Piccapietra, dove con una spesa contenuta si pagava il tempo della durata dell’azione, permettendo alla performance di sopravvivere.

Emergono così nuovi luoghi e nuove modalità di organizzazione e distribuzione della performance art – non più nelle mani del gallerista – ma gestiti dai collettivi, dai gruppi alternativi sulla base di rapporti affettivi. Mentre si assiste all’uscita della performance e della body art dal sistema mercantilistico dell’arte, queste cominciano ad essere praticate da persone legate al mondo delle controculture – dei centri sociali prima e dei rave party dopo.

Queste, e le tante altre esperienze che affiorano nel libro, difficilmente sarebbero state leggibili con le logiche classiche delle discipline umanistiche, che avrebbero continuato a lasciare fuori tutte quelle storie “minori” in favore della Storia con la “S” maiuscola della performance art in Italia.

Riferimenti bibliografici
N. Balestrini, I Novissimi, Einaudi, Torino 1965.

Daniele Vergni, Comportamento Performance Art Nuova Performance: L’azione tra le arti in Italia (1960-1982), Bulzoni Editore, Roma 2024.

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