Uno dei pensieri principali che accompagna la lettura di La commedia all’italiana di Maurizio Grande riguarda la notevole complessità e mutevolezza ermeneutica di questo studio, in grado di far dialogare approcci metodologici diversi, per dar vita ad una proposta critica che non converge verso una lettura univoca del fenomeno, ma che offre una lettura centrifuga, dinamica della commedia all’italiana. 

Per provare a ricostruire il campo d’indagine dell’opera di Maurizio Grande bisogna partire innanzitutto dalla storia editoriale del testo, che si configura come la risultante di una lunga stagione di studi dedicata all’argomento, iniziata già a partire dagli anni ottanta. La commedia all’italiana è infatti un’antologia di saggi, in larga parte già precedentemente editi, che affronta lo stesso campo d’indagine da diverse angolature. Questa architettura del testo in forma di raccolta ha una ricaduta anche in termini di impostazione metodologica, per cui i quattro macro capitoli che scandiscono l’opera, ovvero La società della commedia, La società delle maschere, Lo spazio sublime dell’angoscia  e Epos e commedia, non seguono una precisa linea temporale e spesso anzi ripropongono gli stessi film, gli stessi segmenti di storia del cinema, indagati attraverso nozioni e approcci differenti. 

È il caso di quello che nel libro viene chiamato cinema bianco, ovvero la commedia cinematografica degli anni trenta. La commedia di regime viene infatti tematizzata già nel primo capitolo in rapporto al concetto di reale e di realismo. Se dunque secondo Grande il reale cinematografico è dato (secondo una lettura vagamente pasoliniana) dalla continguità analogica tra le immagini cinematografiche e la realtà contestuale entro cui sono generate, il realismo ha invece a che vedere con una questione di «testualizzazione della realtà» (Grande 2003, p. 12). Scrive Grande in proposito: «In effetti, il realismo può essere definito come costruzione stilistica e come “resa testuale” proprie di un determinato codice di composizione di scrittura, come dominante retorica, assetto del discorso, classe o genere di testualizzazione di alcunché di extra testuale e di extralinguistico» (ibidem).

All’interno di questo discorso è inserita un’approfondita incursione a proposito dell’ambigua relazione tra la commedia bianca, il realismo e la realtà. In quanto prodotto censurato (spesso autocensurato) di un regime dittatoriale, il cinema degli anni trenta è stato spesso interpretato come un prodotto cinematografico completamente scollato dalla realtà, intrappolato nella dimensione asettica degli Studi cinematografici e in definitiva partecipe di un indice piuttosto basso di realismo. D’altra parte, il rapporto con la realtà appare invece molto più problematico: 

Nella commedia bianca degli anni trenta questo “spazio del reale” non si presenta come “contenuto obiettivo del film” ma piuttosto come stratificazione di certe ossature del costume e delle norme sociali, come desiderio segreto e allucinazione. 

Sono dunque proprio i caratteri stringenti e oppressivi della realtà a porre le condizioni necessarie da cui scaturisce il cinema di evasione degli anni trenta. È in un certo senso l’assenza sistematica e perentoria di realismo all’interno del cinema di regime a costituire il legame più diretto con la realtà, in un rapporto di negazione obbligata e di desiderio d’evasione. «Il cosiddetto formalismo blasettiano e il populismo di Camerini sono come una ulteriore “rinuncia al reale”, chiamandone però in causa le inadeguatezze e le imperfezioni» (ivi, p. 23).

La commedia degli anni trenta è poi nuovamente oggetto di studio nella sezione finale del testo di Grande, approfondita questa volta attraverso un filtro quasi narratologico, che tende a indagare il funzionamento – talvolta mancato funzionamento – dello sviluppo drammatico della commedia bianca. Come viene ripetuto a più riprese all’interno dello studio di Grande, la dinamica della commedia in senso ampio ha fortemente a che vedere con il percorso di integrazione sociale che il protagonista deve compiere nell’arco della storia. L’integrazione sociale è infatti un topos che, secondo la ricostruzione dello studioso, ha attraversato il genere comico occidentale a partire dalle sue manifestazioni teatrali più antiche

Il movimento iniziale della commedia è, dunque, la rappresentazione di una naturale forma di conflittualità fra passato e futuro, fra generazioni, fra individui e ceti; ma soprattutto fra l’immobilità dei poteri costituiti (sia pure in modo illegittimo e non dichiarato) e la mobilità iniettata dall’emergere di nuovi soggetti sulla scena sociale (ivi, p. 40)

Nella commedia di regime, tuttavia, dal momento che una critica all’assetto sociale non deve né può trapelare in alcun modo, questa dinamica narrativa subisce un’inevitabile battuta di arresto. La conflittualità che doveva precedere il riassorbimento finale del protagonista all’interno del tessuto sociale è spostata dunque su una mobilità interclasse: i personaggi della commedia bianca sono infatti spesso chiamati dalle circostanze a camuffarsi e a mettere in scena interazioni, posture e abitudini appartenenti a una classe sociale diversa rispetto a quella di provenienza.

Uno degli esempi su cui Maurizio Grande si sofferma in maniera più puntuale è il film Mille lire al mese di Max Neufeld, girato nel 1939, scritto da Luigi Zampa e Gherardo Gherardi, peraltro remake di una commedia austriaca di poco precedente. La pellicola di Neufeld che racconta gli sforzi della giovane Magda (ovvero un’esordiente Alida Valli) per trovare lavoro al fidanzato ingegnere, attiva in modo paradigmatico questi meccanismi di scambio e di contraffazione della propria identità sociale. La commedia è infatti interamente giocata sullo scambio di ruolo con un farmacista Matteo, amico del fidanzato di Magda, che per una serie di malintesi che occorrono nella prima fase del racconto accetta di indossare i panni del giovane disoccupato, sostituendosi all’effettivo partner della protagonista, Gabriele, costretto a sua volta a camuffarsi da farmacista. Questo stesso schema narratologico da commedia degli equivoci attraversa larga parte della produzione di quegli anni e si impone come struttura narrativa dominante all’interno della commedia bianca.

Per quanto riguarda la commedia all’italiana propriamente detta, ovvero la commedia cinematografica italiana che si sviluppa tra gli anni cinquanta e sessanta, Grande sottolinea il ritorno di quel meccanismo narrativo caratteristico del genere comico (rintracciabile ad esempio già nella commedia aristofanea) che gioca sul contrasto tra individuo e società. Rifacendosi agli studi critici di Northrop Frye, Grande parla infatti di commedia all’italiana come di una tipologia testuale in cui viene messo in scena soprattutto «il piccolo o grande dramma dell’adattamento dell’individuo ai canoni sociali, e i piccoli o grandi traumi della società nell’incorporare i nuovi soggetti e le nuove forze socioculturali nella sua struttura palese» (ivi, p. 45).

La ricorsività strutturale di questo tema spinge lo studioso a sviluppare una tassonomia descrittiva delle possibili trame dei film: lo schema organizza i diversi intrecci a seconda delle dinamiche di adattamento dei personaggi alla realtà in piena trasformazione del Secondo dopoguerra, che Grande definisce la «società nuova del “benessere” a cambiali» (ivi, p. 68). Si tratta di quattro grandi categorie che descrivono il tema portante dei film: a) le commedie legate al mythos dell’ingresso in società; b) le commedie legate al mythos dell’adattamento forzato alle norme sociali; c) le commedie legate al mythos della truffa e del travestimento; d) le commedie legate al mythos dell’innocenza perduta. Tra le commedie riconducibili al primo filone, i tre titoli considerati più rappresentativi sono Le ragazze di Piazza di Spagna (Emmer, 1952), Due soldi di speranza (Castellani, 1952) e Peccato che sia una canaglia (Blasetti, 1955). Se pur con sfumature diverse, tutte e tre le pellicole descrivono infatti il passaggio dei protagonisti alla vita adulta attraverso il rito matrimoniale. Per quanto riguarda invece il mythos dell’adattamento forzato i titoli individuati da Grande sono Il segno di Venere (Risi, 1955), Lo scapolo (Pietrangeli, 1956) e I soliti ignoti (Monicelli, 1958) e Il marito (Loy, Puccini, 1958); in questo caso il meccanismo preso in considerazione è quello della tensione che talvolta si istituisce tra «rinvio e accettazione della vita adulta» (ivi, p. 68). Questo filone narrativo passa sempre attraverso il macro-tema dell’amore passionale e romantico, presentato spesso in opposizione a un’istituzione familiare ancora fondamentalmente arcaica e conservatrice; altri argomenti-satellite che emergono poi all’interno di questi film riguardano il tema del rifiuto per la cultura del lavoro (tematizzato in particolar modo nel film di Monicelli) e quello di una pigrizia associata tipicamente al mondo della gioventù.

Una vita difficile (Risi, 1961) Divorzio all’italiana (Germi, 1961) e Il sorpasso (Risi, 1962) sono invece i cosiddetti film della truffa e del travestimento: il filo conduttore che unisce le trame di queste diverse opere consiste prevalentemente nell’espressione di una dialettica tra individuo e desiderio, spesso morboso, tensione che porta inevitabilmente ad uno scontro violento con l’ordine sociale. Scrive Grande in proposito: «In questi film viene alla luce lo squilibrio insanabile tra il soggetto e le sue mete», laddove le mete sono però tuttalpiù «desideri allucinatori» (ivi, 72).

Infine, abbiamo i titoli dell’innocenza perduta, che, come indica eloquentemente la denominazione, descrivono il passaggio dalla spregiudicatezza adolescenziale alla morigeratezza della vita adulta; questo percorso è raccontato attraverso l’iter tortuoso di personaggi che oppongono una strenua resistenza alle convenzioni e alle norme sociali. I titoli che rientrano all’interno di questa trattazione sono Un americano a Roma (Steno, 1954), Pane amore e fantasia (Comencini, 1954) e Poveri ma belli (Risi, 1957). L’insieme di queste commedie-chiave individuate dallo studioso viene poi analizzato attraverso un’interpretazione lacaniana, che chiama in causa i concetti di frustrazione, privazione e castrazione, evocati all’interno del saggio Le relazioni d’oggetto e strutture freudiane contenuto nei Seminari. Secondo Grande, infatti, queste tre nozioni costituiscono «lo sfondo teorico contro cui proiettare lo scacco che immette alla vita adulta» (ivi, p. 63). 

Di seguito a questo capitolo dedicato ad una schedatura sistematica delle trame dei film, ne segue uno intitolato Bozzetti e opere, che lascia invece largo spazio al discorso sulla ricezione critica del genere e sul rapporto con il cinema precedente. In particolare, la dialettica con il Neorealismo costituisce un topos ricorrente di gran parte delle recensioni contemporanee alle opere: Grande ci restituisce un interessante, spesso discorde, panorama critico, in cui alcuni intellettuali come Aristarco e Morandini, insistono nel considerare «la poetica del bozzetto» di cui partecipano i film della commedia all’italiana, come un sottoprodotto o una parodia della grande stagione cinematografica del Neorealismo

La commedia all’italiana di Maurizio Grande è dunque un testo eterogeneo, in grado di mettere a sistema, oltre che diversi approcci critici, diverse stagioni cinematografiche italiane del secolo scorso. La giustapposizione di saggi, che scorrono di continuo avanti e indietro lungo il perimetro del cinema italiano, amplia infatti i confini cronologici della ricerca, i cui estremi sono il cinema di regime da un lato e la commedia anni ottanta dall’altro. «Come tutte le formule di successo» scrive Grande «anche la dizione “Commedia all’italiana” comporta una serie di vantaggi e svantaggi» (ivi, p. 43). Alle criticità intrinseche della definizione stessa del genere, Maurizio Grande risponde dunque avanzando un’interpretazione della commedia all’italiana come di un fenomeno dinamico, non confinato esclusivamente alla fortuna produttiva degli anni cinquanta e sessanta, ma fortemente interconnesso con altri movimenti cinematografici limitrofi, tra cui il neorealismo e la commedia bianca degli anni Trenta, ma anche il cinema mostruoso e grottesco di Marco Ferreri

Riferimenti bibliografici
M. Comand, Commedia all’italiana, Il Castoro, Milano 2010.
N. Frye, Anatomia della critica, Einaudi, Torino 2000.
P.P. Pasolini, Il “cinema di poesia”, in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1995.

Maurizio Grande, La commedia all’italiana, a cura di Orio Caldiron, Bulzoni, Roma 2003.

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