Tra le tante, ripetute celebrazioni kafkiane, appare per Quodlibet un saggio di Arianna Brunori, Imputazione e colpa. L’invenzione della volontà, che, pur non essendo affatto un saggio su Franz Kafka, interroga da vicino i presupposti stessi dell’esperienza kafkiana. Dunque, in un certo senso, i presupposti del nostro mondo, se è vero che Kafka è anche il nome di una situazione storico-metafisica che ancora ci riguarda. La potremmo chiamare semplicemente la colpa, in realtà è qualcosa che precede di molto la colpa e che riguarda i fondamenti stessi della nostra antropologia. Brunori, infatti, sceglie come oggetto della propria indagine non la colpa in quanto tale, ma l’imputazione, ossia il presupposto logico di ogni colpa. In che modo si può dire che il colpevole è colpevole? Se esiste la colpa, come si fa a dire che una certa persona è colpevole? Queste domande ne portano con sé altre, ancora più gravi: qual è il rapporto tra ciò che facciamo e ciò che siamo? Che cos’è un peccato?

Lo studio di Brunori – che ha il merito di essere scritto in una prosa impeccabile, completamente esente da tutti gli automatismi accademici – mostra anzitutto una chiara, acutissima capacità di penetrazione dei testi. Che siano filosofici, letterari, teologici, giuridici, che siano antichi, medievali o moderni, Brunori riesce a porre con ogni autore la questione essenziale, senza perdersi. Perché la macchina dell’imputazione, infatti, funziona su più livelli, e uno dei meriti di questo libro è la capacità di mostrare l’interdipendenza – non solo storica, ma logica – tra questi piani. Il saggio si concentra sulla formulazione medievale, perché è nel medioevo che la macchina imputativa teologico-giuridica si è accresciuta e perfezionata. Ma non è un saggio medievistico, il medioevo è solo il luogo privilegiato in cui è dato vedere il complesso intrico che è in gioco, e Brunori riesce a mostrare perfettamente la preistoria e la vita successiva dell’imputazione, fino a noi. Il processo ricostruito è quello delineato nel sottotitolo: l’invenzione della volontà. È infatti nella volontà – questa più impalpabile tra le facoltà umane – che imputazione e colpa si saldano.

Il diritto, la morale, la teologia: tutti modi di definire l’uomo a partire da una padronanza di sé, o meglio, dai modi sottili attraverso cui progressivamente, faticosamente si appropria di sé. Dunque di definire l’essere umano a partire da un lieve scarto interno attraverso cui gli è possibile appropriarsi. Per essere mio, infatti, non devo essere semplicemente io – è questa la nascita della coscienza riflessiva. Non si può dire che nessun atto mi appartenga se prima non si è compiuto in me questo evento. E qui, proprio in questo punto, si stabilisce la colpa. Da azione esteriore, la colpa, attraverso l’imputazione, diventa un fatto puramente interiore. L’albero della conoscenza è, in realtà, l’albero della volontà.

La colpa non è solo un’azione, ma è uno status, è qualcosa che riguarda non solo il diritto, ma l’ontologia: non si ha una colpa, ma si è colpa, ovvero si è colpevoli. Dunque quello scarto iniziale della coscienza, quella originaria disappartenenza che articola ogni nostro dominio su noi stessi, è funzionale a un’altra, a una più radicale forma di identificazione con la colpa. Noi non siamo esattamente ciò che facciamo, e non coincidiamo esattamente con il nostro vissuto interiore. Tuttavia, proprio questo ci rende colpevoli. Proprio la nostra distanza da noi stessi – che chiamiamo razionalità e volontà – ci inchioda infine a noi stessi. Non posso essere giudicato colpevole di un atto di cui non ho coscienza; eppure, la volontà serve proprio a imputarmi la coscienza.

Esattamente come i filosofi averroisti interrogavano la natura del pensiero a partire dai suoi buchi, dagli strappi, dai momenti in cui non pensiamo, così Brunori riesce in alcuni capitoli a porre la questione della volontà a partire da quei luoghi dove la volontà non si esercita: il sonno, il delirio, ecc. Qui è possibile ritrovare qualcosa come un terreno vergine, sottratto a tutte le pulsioni imputative teologiche e giuridiche, e che tuttavia da sempre si cerca di colonizzare. Questo territorio ancora indelibato, questa coscienza ancora non macchiata da nessuna possibilità di colpa, è ciò che il libro non può ovviamente afferrare, ma che riesce a circoscrivere con efficacia. Moosbrugger, il pazzo criminale di cui Musil racconta il processo nell’Uomo senza qualità, rappresenta qui il modello di questa terra ancora vergine, eppure sempre in procinto di essere conquistata. Moosbrugger è Adamo?

La colpa dunque, mostra Brunori, nasce con la nascita della soggettività. O meglio, è forse proprio la nascita della soggettività a essere la colpa originaria, ciò che ci destina alla colpa? Il saggio di Arianna Brunori è a tutti gli effetti filosofico, oltre che storico. Il montaggio ricchissimo delle fonti permette, infatti, di ricostruire lo sviluppo di una questione molto più ampia rispetto a quella dell’imputazione: come l’essere umano diventa umano. Ovvero il processo – nel senso anche giuridico del termine – antropogenetico. Ciò significa che la ricerca storica vuole, in realtà, accedere al luogo in cui questa colpa accade da sempre, per liberarcene:

La cacciata dal paradiso è un processo eterno nella sua parte principale: la cacciata dal paradiso è sì definitiva, e la vita nel mondo inevitabile, ma l’eternità dell’evento rende tuttavia possibile non solo che potremmo rimanere perennemente in paradiso, ma che di fatto perennemente vi siamo, ed è indifferente che qui lo sappiamo o no (Kafka, 2024).

Riferimenti bibliografici
F. Kafka, Aforismi di Zürau, Adelphi, Milano 2004.

Arianna Brunori, Imputazione e colpa. L’invenzione della volontà, Quodlibet, Macerata 2024

Tags     Brunori, colpa, Kafka, Musil, volontà
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