In un tempo in cui siamo costantemente esposti a slogan, immagini, film – compresi quelli del concorso – che mettono al centro la questione di genere, Susanna Nicchiarelli con il suo quinto lungometraggio conferma la sua capacità di andare alla radice del discorso senza doverlo troppo dichiarare. Chiara è una celebrazione gioiosa della donna, è il racconto consapevole della sua ineguagliabile forza, è, più semplicemente, il superamento di qualsiasi inutile argomentazione a vantaggio delle “quote rosa” in nome dell’esplosione pura e semplice dell’energia femminile. È anche senza dubbio il suo film più imperfetto e al contempo, proprio per questo, il più coraggioso e il più sicuro di sé.
Di Santa Chiara, interpretata da Margherita Mazzucco, viene raccontato un arco temporale che parte dalla notte in cui, ancora con i capelli lunghi e il vestito da nobile, decide insieme alla compagna Pacifica di iniziarsi all’ordine della povertà di San Francesco, e arriva al momento in cui il Papa, dopo molte resistenze, le concede di scrivere la sua Regola e di formare il primo ordine di “sorelle minori” della storia (italiana). Durante il percorso di crescita raccontato dal film – in cui la donna scopre progressivamente di essere prescelta dal Signore, la comunità femminile si fa sempre più numerosa e infine si distacca da quella di Francesco ottenendo un suo spazio autonomo di riconoscimento – la Santa è in primo luogo Chiara, come Nicchiarelli tiene a sottolineare sin dal titolo.
Questo non significa affatto che la protagonista venga dipinta come una ragazza ingenua sopraffatta dal suo destino. Chiara è da subito determinata a far prorompere ciò che scorre dentro di lei (non tanto l’aspetto miracoloso, quanto la vocazione a una vita di povertà e di aiuto nei confronti del prossimo) con il fine principale di condividere i suoi intenti con quante più persone possibili. Francesco (Andrea Carpenzano) è più spaventato: accoglie Chiara e Pacifica ma, quando vede che la comunità delle donne aumenta di numero e inizia a sorgere la volontà di seguire i frati nei pellegrinaggi all’estero (in Marocco, a Gerusalemme), decide, con l’appoggio del potere ecclesiastico, di scrivere una Regola che escluda il contatto tra frati e monache e stabilisca che queste ultime cerchino una protezione in convento.
Certo, come è giusto, Nicchiarelli racconta di una donna giovane e quindi in cerca di sé, sorpresa, emozionata dalla vicinanza di un amore casto, Francesco, complice con sorelle che sono prima di tutto amiche. Per questa ragione la scelta di far parlare ai personaggi il volgare – scelta non scontata e impegnativa, per gli attori e in parte per lo spettatore – rientra nella volontà di costruire non solo un contesto realistico ma anche un ambiente che sia “sensuoso”, aperto ad accogliere tanto la naturalezza degli sguardi, dei sorrisi, dei corpi in movimento quanto quella di una lingua sporcata dal dialetto, sonora prima che significante, non sempre comprensibile.
Le eroine scelte dalla cineasta – da Nico a Miss Marx – sono d’altronde sempre state raccontate nei loro aspetti più umani, spesso a partire da un lavoro sinestesico sui cinque sensi (i profumi, i colori, i suoni). Anche di Chiara il corpo viene avvicinato senza remore: le sue ferite, la sporcizia tra le dita dei piedi, le lacrime. Chiara e Francesco hanno fame. Lui “sempre”, come dice la Santa, lei quando raggiunge definitivamente la coscienza di chi è e di cosa può – riempire un otre di olio di oliva ad esempio, in cui inzuppa il pane con ingordigia. Sono Santi tutt’altro che votati all’ascetismo, abbracciano la vita in tutte le sue forme, come del resto la preghiera in volgare scritta da Francesco prima di morire, Laudato si mi Signore, testimonia.
Questo vitalismo viene incarnato in modo inequivocabile nelle numerose scene del film in cui Nicchiarelli sceglie di far ballare e cantare le sue donne. I corpi, sulle note arcaiche di Anonima Frottolisti, fanno entrare le proprie membra in sintonia con quelle delle altre e con la natura tutta muovendosi a ritmo, vocalizzando il nome di Chiara, facendo giravolte nelle albe e nei tramonti della campagna senese. Quasi a suggerire che la vera armonia dell’insieme, vale a dire la capacità e il desiderio di seguire l’altro, addirittura di farsi altro per mantenere intatto l’equilibrio della comunità, sia raggiungibile in modo totale solo dalla figura femminile.
“Ho spento la luce, così sono cieca con te”, dice Chiara a Francesco la notte che il Santo perde la vista del tutto. Chiara guarisce i malati perché impara progressivamente ad essere altri corpi, a muovere l’energia di un insieme in cui, come in fisica, ogni particella è connessa con l’altra, senza gerarchie. Vorrebbe “non essere Santa”, come dice a Francesco. Ma l’opposto dell’essere Santa non è essere normale, è essere tutti, “stare con la gente”, unirsi per sconvolgere il corso delle cose.
Il collettivo desiderato da Chiara è simbolicamente quello delle donne di ogni tempo, e dunque anche di questo. La regista ce lo dice chiaramente attraverso i molteplici sguardi di Chiara in macchina. Tra tutti l’ultimo, in cui ci morde in faccia il pane che ha appena diviso con le compagne perché, come canta Cosmo nella scena finale (ripetendo la cifra ormai consona della regista), anche una Santa, se pur immortale, “non sa e non vuole morire”. O, detto in altro modo, sa vivere e sa farlo senza limiti, inaugurando una storia in cui l’energia femminile non deve conoscere ostacoli.
Chiara. Regia: Susanna Nicchiarelli; sceneggiatura: Susanna Nicchiarelli; interpreti: Margherita Mazzucco, Andrea Carpenzano, Carlotta Natoli, Paola Tiziana Cruciani, Luigi Lo Cascio; produzione: Tarantula; origine: Italia, Belgio; durata: 106′; anno: 2022.