6 giugno 1875 – 6 giugno 2025: sono passati 150 anni da quando, in una casa patrizia della città anseatica del nord della Germania Lubecca venne alla luce Paul Thomas Mann. Successivamente diventerà famoso con il secondo nome, e diventerà – in breve – lo scrittore più famoso di lingua tedesca del Novecento, anzi: lo scrittore per eccellenza, l’autore di capolavori notissimi come I Buddenbrook, Morte a Venezia, La montagna incantata (che qualche anno fa un’edizione critica molto accurata ha giustamente reintitolato La montagna magica), Doctor Faustus, ecc. ecc.; uno scrittore coronato dal Nobel per la letteratura già nel 1929, che poi – troppo tardi secondo i suoi figli – lasciò la Germania hitleriana stabilendosi in America, proclamando – in aperta polemica non solo con il regime nazista, ma anche coi colleghi rimasti in patria – «dove sono io, là è la Germania»; uno scrittore che dopo il disastro bellico e morale rientrò in Europa (ma non in Germania, preferendo la Svizzera) e morendo infine nel 1955, onorato e riverito ma in fondo anche invidiato e criticato nella sua posizione di praeceptor Germaniae.

Uno scrittore – lo si capisce subito, e lo sanno tutti, non solo gli specialisti – importantissimo per tutta la vita intellettuale tedesca del Novecento, prima e dopo di lui. Uno scrittore – infine, e per tornare alla suggestione iniziale – che sembra baciato dalla fortuna e dal destino, come rivela in un piccolo scritto autobiografico in cui gioca con la suggestione goethiana dell’oroscopo alla nascita: anche Goethe, inaugurando il grandioso scritto autobiografico senile programmaticamente intitolato Poesia e verità, aveva ricordato il suo tema natale oroscopico, a sottolineare una nascita benedetta dalle stelle. Adepti dell’astrologia – ricorda dunque Mann – gli avevano assicurato, a partire dalla posizione dei pianeti in quel 6 giugno 1875, una vita lunga e felice, e una morte tranquilla a coronarla. Tutto insomma sembra disporsi nella maniera migliore nella parabola terrena di Thomas Mann, a cominciare da quel piccolo gesto di imitazione goethiana, insieme vezzo di vanità e gesto serio – a rivendicare, insomma, una paternità letteraria e culturale che si fa anche morale e politica: come Goethe, insomma, anche Mann intende essere il padre della cultura tedesca, l’educatore dei suoi concittadini, la guida che li orienti nei loro dubbi e incertezze.

Certo però questi 150 anni trascorsi, con il loro carico pesantissimo di due guerre mondiali, della crisi, del totalitarismo, delle persecuzioni razziali, delle stragi e della condanna morale e materiale della Germania sconfitta, nonché della separazione in blocchi dell’Occidente, sembrano confutare in ogni punto questa olimpica posizione dello scrittore tedesco sulle orme di Goethe; eppure anche in qualche modo rivendicarla. Davvero si tratta, nel caso di Thomas Mann, della «vita come opera d’arte», come recita il titolo di una famosa biografia del germanista Hermann Kurzke, uscita in italiano nel 2005 e ora recentemente riedita (Hermann Kurzke, Thomas Mann. La vita come opera d’arte, Carocci 2025); cioè di una vita tutta declinata all’insegna della letteratura, della cultura come destino e come spirito. Anche questa espressione va presa sul serio: va cioè considerata come il tentativo di considerare tutta la propria esistenza sotto il segno dell’arte, sia come indirizzo di perfezione che come antidoto ai mali del proprio secolo – come anche, però, segno di tali mali.

La dialettica tra arte e vita è infatti al centro di praticamente tutte le opere letterarie (e saggistiche) manniane sin da quel romanzo familiare incentrato sui Buddenbrook, che già nel titolo reca inscritto il destino della “caduta”: Verfall einer Familie, Decadenza di una famiglia è il titolo completo dell’opera prima del giovane autore, subito un successo. Il romanzo racconta appunto come la famiglia borghese e imprenditoriale dei Buddenbrook veda poi nel suo rappresentante più giovane tutti i sintomi della corruzione dell’originale posizione di una famiglia di successo – proprio perché il giovane protagonista sembra preferire l’arte e la musica all’impresa e al buon nome borghese. Una linea perfettamente riconoscibile nella narrativa di Mann, che dopo l’iniziale successo inanellerà altri importanti romanzi brevi, La morte a Venezia su tutti: il romanzo breve che, ancora, mette al centro il concetto della decadenza, individuale nella figura del suo protagonista alle prese con i suoi “astratti furori” omoerotici alla ricerca dell’impossibile perfezione estetica, e collettiva in quella di una Venezia in preda al colera.

Un tema – quello della tensione omoerotica maschile – che domina anche molte annotazioni diaristiche di Thomas Mann (nei diari che hanno accompagnato praticamente tutta la sua vita e che prossimamente usciranno in traduzione italiana); e i diari sono infatti il luogo a cui lo scrittore delegava le sue pulsioni più profonde e inconfessabili, le sue riflessioni, le sue opinioni sul mondo – insomma anch’essi un gesto goethiano di autoaffermazione.

In fondo, Thomas Mann è un grande scrittore proprio per la sistematica dialettica dell’ambiguità che lo abita a più livelli: personale, culturale, letteraria, politica. Per esempio la Prima guerra mondiale: al suo scoppio, come la gran parte degli intellettuali europei, lo scrittore si schierò senza esitazioni al fianco del Reich che era sceso in guerra contro Francia, Gran Bretagna e Russia zarista, per difendere le ragioni della Kultur contro la Zivilisation – cioè le ragioni della cultura tedesca in tutta la sua portata spirituale e politica, contro le “civiltà” occidentali segnate da un falso concetto di libertà, di individualità, di liberalismo.

Questo atteggiamento culminerà nelle celebri Considerazioni di un impolitico, 700 pagine di riflessioni acute e ironiche sul proprio conservatorismo culturale, tratto distintivo dell’intellettualità tedesca, anche in contrapposizione con il fratello Heinrich, pure lui scrittore di successo, all’epoca invece schierato decisamente in difesa dei comuni valori di libertà tra Francia e Germania – visto dunque dal fratello come un alfiere di quella Zivilisation contro cui gli araldi della Kultur devono schierarsi senza indugi. Prese di posizione adatte al tempo e all’ora, come si vede; eppure proprio l’acutezza e l’ampiezza teorica di un testo come queste Considerazioni testimonia di questa profonda dialettica manniana, che lo eleva anche sulle questioni di politica più immediatamente legata al periodo.

Infatti la catastrofe bellica del 1918, con i conseguenti sommovimenti statuali che portarono poi al collasso dei grandi Imperi centrali, segnò la storia della Germania, uscita sconfitta e profondamente trasformata: dal Reich fondato sulle ceneri ideali dei trascorsi medievali del Sacro Romano Impero nacque una nuova repubblica, dotata di una costituzione avanzatissima ma segnata dai conflitti interni sociali e politici (tra un movimento rivoluzionario che «voleva fare come in Russia» attuando un rivolgimento di tipo bolscevico, ai tanti – specialmente in ciò che restava delle élites militari e politiche – che quella neonata repubblica la vedevano come il fumo negli occhi, ovvero come la conferma della catastrofe spirituale che aveva trascinato la Germania nell’abisso).

Ci si sarebbe dunque aspettati che un personaggio in vista e ammirato come Thomas Mann scegliesse senza indugi il campo dei critici della Repubblica di Weimar – mentre lo scrittore stupì tutti tenendo un discorso nel 1922 in cui, rivolgendosi principalmente ai giovani, prendeva invece le difese dei valori repubblicani. Una svolta importante e molto criticata, che in verità fonda un nuovo profilo intellettuale dello scrittore, sia pure radicato nelle premesse precedenti: quello di uno scrittore ora esplicitamente e pubblicamente orientato ai valori umanistici dell’individuo, alla sua libertà, alla sua etica pubblica (però legati sempre a quella Kultur che trova le sue origini moderne nel romanticismo).

Un profilo che delinea esattamente un romanzo davvero del proprio tempo (Zeitroman è infatti la definizione) come Der Zauberberg, ovvero La montagna magica: cioè quella nella Svizzera dei sanatori per i malati di tisi, in uno dei quali venne ricoverata nel 1912; Thomas Mann – all’epoca appena fresco di pubblicazione della Morte a Venezia, meditò a partire da questo evento personale su un possibile “pendant ironico” a quel romanzo breve – che poi però si gonfiò a tal punto da diventare un romanzo fluviale e ricco di sfumature, che si era posto l’obiettivo di raccontare la società negli anni immediatamente antecedenti il conflitto in forme talora ironiche, talora molto serie, dal punto di vista di un giovane ragazzo che accompagna il cugino malato e poi resta nel sanatorio fino allo scoppio della guerra, dopo essersi anche lui ammalato ma che poi alla fine troviamo a combattere sul fronte.

La montagna magica è un «libro controverso» (Kurzke), un grandioso affresco della propria epoca, in cui Thomas Mann fa riconfluire tutte le sue idee precedenti e attuali (il romanzo ebbe bisogno di 12 anni di gestazione per poter essere poi pubblicato nel 1924) a delineare una figura di giovane sospeso tra istanze conflittuali, amori e tensioni, inaspettati ritorni del mito. Giacché Thomas Mann appare sempre consapevole della profonda ambiguità di certi ritorni, tra fascinazione e orrore, tra positività e distruzione; che ritrova puntualmente nel proprio tempo e nella società in cui vive.

Celebrato col Nobel per la letteratura nel 1929, contestato da destra e da sinistra (e perfino dal figlio Klaus, anche lui scrittore), nel 1933 tiene un ciclo di conferenze dedicate alla figura del compositore Richard Wagner, da lui molto amato e di cui riconosce la profonda influenza sulla società tedesca del proprio tempo, ovviamente non solo in termini musicali e artistici: sarà proprio quel ciclo di conferenze a causare l’ostilità manifesta del nuovo regime (verso cui lo scrittore ostentava distacco, piuttosto che concreta opposizione) e in seguito l’espulsione dal suo paese. Che Thomas Mann veda nel regime hitleriano sostanzialmente un ritorno di miti ancestrali rimossi e repressi, e che ora hanno finalmente uno spazio pubblico di manifestazione, è dimostrato principalmente dalla sua successiva impresa letteraria, una tetralogia dedicata alla figura veterotestamentaria di Giuseppe, con cui Mann intende strappare alle mani naziste il monopolio del mito nella storia.

Gli anni successivi, trascorsi in esilio principalmente negli Stati Uniti (di cui acquisirà perfino la cittadinanza), sono anni infatti di grande attivismo politico e culturale, al fianco degli Alleati contro la montante marea nazifascista, che lo porteranno, anche dopo la fine del conflitto, a un giudizio molto severo sul suo paese per 12 anni in mano a Hitler (che pure viene polemicamente e problematicamente definito fratello in un suo breve saggio del 1939).

Un giudizio severo e tuttavia non distaccato, come testimoniato dalla sua ultima grande fatica narrativa: ovvero quel Doktor Faustus che intende continuare l’imitazione goethiana – mai cessata lungo tutta la sua vita – sottoponendo a una attualizzazione la figura principale del grande scrittore, ovvero Faust; che qui è diventato un compositore che vende la sua anima per raggiungere il successo nel paesaggio culturale, spirituale e politico tedesco nella prima metà del secolo – il tutto raccontato da un Io narrativo dal nome ironicamente parlante, Serenus Zeitblom (sereno come fausto è il protagonista del romanzo), che racconta, con apparente distacco, della “vicinanza fra estetismo e barbarie” di cui parla in conclusione (Mann 1949, p. 442).

Thomas Mann dunque tra gli estremi, uno scrittore che, oltre alle sue capacità scrittorie e intellettuali fuori discussione, è in grado di dirci molto sulla storia tedesca, passata e presente grazie a quella sua esigenza – già di Goethe – di bilanciare continuamente i poli in cui si dibatte senza posa.

Riferimenti bibliografici
T. Mann, Doctor Faustus, Mondadori, Milano 1949.

Thomas Mann, Lubecca, 6 giugno 1875 – Zurigo, 12 agosto 1955.

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