Qualche anno fa, insieme al filosofo e traduttore Alfonso Cariolato, dovevo scrivere un libro monografico su Chris Marker. La cosa non si è poi concretizzata per problemi a noi esterni, ma durante la fase preparatoria del lavoro riuscimmo a mettere in luce cose – crediamo – interessanti.

Il nostro ragionamento partiva da una domanda precisa: cosa si sa oggi, in Italia, di Marker? Leggendo quanto scrivono alcuni studiosi e studiose che, nel tempo, si sono occupati del lavoro del francese, con un minimo di approssimazione si potrebbe dire: se ne conoscono il cinema e l’opera video, con alcune zone d’ombra; la si cita, ma si conosce meno tutta la produzione che, invece, passa per i libri (traduzioni, curatele, scrittura). A questo va poi aggiunto che le analisi critiche a disposizione non sembrano porre collegamenti sullo stesso piano valoriale tra le parti, optando spesso per un approccio per così dire ‘appiattito’ sulla connotazione saggistica del suo cinema.

Date queste considerazioni, l’obiettivo che ci si pose fu quindi quello di verificare, tramite ricerca d’archivio, e quindi una ricognizione sintetica ma il più possibile comprensiva dei vari aspetti dell’opera, se fosse davvero la forma-saggio il tratto più unificante del lavoro markeriano, o se – invece – non ci fosse qualcos’altro.

Il risultato delle nostre ricerche fu, per lungo tempo, il seguente. Avevamo preso atto della validità del discorso saggistico, certo, ma nello stesso tempo ci è parso evidente come non fosse possibile ridurre tutto a quell’approccio, a meno che non ci fosse l’intenzione di optare per una forzatura dell’uso del termine, piegandolo ad esigenze – per così dire – postmoderne. Detto in altri termini: se attraverso un libro come, per esempio, L’homme et sa liberté (Seuil, 1949) si può senz’altro già presagire quella che poi sarà una delle tendenze più presenti nella produzione audiovisiva del nostro (il sottotitolo recita «Jeu pour la veillée utilisant des textes recueillis par Chris Marker»), ce ne sono poi altri – di libri – che, invece, ci rivelano il suo talento di narratore, ricco di sottigliezza e privo di lambiccamenti, con quella dose di (sano) mestiere poco plasmabile per giochi meta-discorsivi (qui il pensiero va a Le cœur net, pubblicato da Seuil sempre nel 1949).

Questo per limitarsi ai volumi riferibili al campo letterario. Ma una varietà del genere si ritroverebbe anche altrove. E facilmente. Per esempio, nei suoi libri fotografici, mai interamente solo saggistici, laddove con questo termine – saggio – s’intenda uno studio composito (parole e immagini), finalizzato all’approfondimento di un determinato argomento. Questa irriducibilità ad una sola forma la si può notare sfogliando Coréennes (Seuil, 1959, recentemente ripubblicato da L’Archnéen), che è un esempio perfetto di stratificazione di registri espressivi, tanto sul piano testuale quanto sul piano visuale. Anche se le foto di Marker e soprattutto la loro messa in sequenza possono offrire l’occasione ad alcune persone di considerarlo – suo malgrado – uno dei padri nobili della cultura del photo-essay, la cosa non esaurirebbe di certo le possibilità di un discorso diverso sulla fotografia attraverso l’uso del mezzo da parte del francese.

Per poi tornare al cinema e al video, abbiamo sempre visto quella parte della sua opera come uno splendido esempio di un artista che, nel bene e nel male, ha sempre tentato di non adagiarsi su una sola maniera di vedere. Oggi si parla ovunque di film-saggio, e magari davvero certi film-saggisti di oggi sono, a loro modo, markeriani. Ma per noi Marker non è mai stato markeriano. E quindi, come definirlo? È stato a questo punto che Cariolato, credo tramite un ricordo di una sua conversazione con Jean-Luc Nancy, ha pensato a Cartesio. Marker cartesiano. Ovvero: al di là dei possibili cliché, un aggettivo da intendersi come sinonimo di una attitudine mentale verso una limpidezza espressiva che non cela ma sotto-intende i meccanismi che l’hanno forgiata.

Sebbene la definizione ne possa contemplare il rischio, parlare di Marker cartesiano non significa necessariamente soffermarsi su una connotazione demiurgica dell’idea di autore. Certo, Cartesio può essere inteso come quel filosofo lì, ma nel nostro caso avrebbe più senso – e gli renderebbe più giustizia – soffermarsi sulla portata innovativa del suo pensiero da un punto di vista, diciamo, antistorico. Cioè non come fondamento di una determinata idea di razionalità occidentale, quanto invece come una discontinuità rispetto al passato alle spalle, uno strappo rispetto al modo pregresso di vedere l’uomo e le cose vigenti fino ad allora. Estremizzando, si potrebbe dire che uno dei contributi cardine del progetto cartesiano sia stato quello di introdurre, nella nostra relazione con il divenire del mondo, qualcosa di evidente e di intelligibile al tempo stesso, ascrivibile – come si sa – all’atto di pensare, o – volendo – al pensiero come atto.

Tornando a Marker, ci sarebbe qualcosa in linea con la lezione cartesiana nella misura in cui si pone una somiglianza tra l’attività dell’artista e quella del pensatore. Io filmo, io penso: se si prova a concepire questa diade come una specie di equivalenza, allora quel che emergerebbe potrebbe descrivere con efficacia il modo di vedere markeriano quando lo si astrae dalla specificità dei singoli lavori. Nel cinema e nei video del francese si ritrova sempre una sorta di fascinazione costante per quello che potremmo chiamare l’evidenza di ciò che comunque accade di fronte agli occhi, di fronte alla macchina da presa, o alla videocamera. Dall’attenzione per i dettagli di volti che sembrano sfuggenti – si pensi a come ci fa incontrare la protagonista di quel capolavoro che è Le Mystère Koumiko (1965), oppure a certi primi piani in Sans Soleil (1982) – allo sguardo rivolto invece alle manifestazioni di protesta, e quindi ai corpi nel loro essere insieme, mossi da determinate cause (in merito, qui si può per esempio ricordare la sua fase militante, con Les groupes Medvedkine).

Tuttavia, in modalità diverse, a questa fascinazione ha spesso corrisposto una contro-tendenza attraverso cui, nelle sue opere audiovisive, interviene una mediazione pronunciata in ciò che viene messo in evidenza. Soluzioni espressive che allargano lo spettro dei significati di quei momenti in cui vengono utilizzate ma che, nello stesso tempo, sembrano essere messe lì come a sconfessare qualsiasi possibilità che quelle riprese, da sole, siano sufficienti a far trapelare la loro verità. Per restare sempre nella comparazione con Cartesio, si potrebbe parlare di stile come messa in dubbio dell’atto di vedere quando è attività esclusivamente sensoriale.

A questo, bisognerebbe aggiungere la seconda parte della celebre formula del filosofo, l’ergo sum. Penso quindi sono. Ma allora: filmo dunque sono? Qui c’è forse la ragione per cui una lettura cartesiana di Marker possa essere proficua se usata per ampliare quella saggistica, dal momento che un approccio tramite quest’ultima non si focalizzerebbe, di norma, sul “funzionamento” del testo filmico. E nel cinema e video markeriani, nei casi più creativamente riusciti, sembra possibile parlare di uno sforzo teso a mostrare non solo delle immagini ma anche – e soprattutto – far emergere ciò che si trova tra quelle. E mi piace pensare che è magari per questo che, a differenza di tanti altri e altre filmmaker che, come lui, hanno sperimentato nel tempo sul linguaggio audiovisivo, Marker non ha mai abbandonato lo strumento della narrazione. Ovvero, qualcosa che può arrivare a dare all’immaginazione un valore di critica, anche quando i presupposti estetici sembrerebbero mancare. Volendo, si potrebbe terminare parafrasando il cogito cartesiano con una formula del tipo: filmo quindi l’immagine è – un segno, un simbolo, tutto questo, niente di tutto questo, e molto altro. Certamente qualcosa la cui evidenza non sarebbe solo mera presenza.

Riferimenti bibliografici
C. Marker, L’homme et sa liberté, Seuil, Parigi 1949.
Id., Le cœur net, Seuil, Parigi 1949.
Id., Coréennes, L’Archnéen, Parigi 2018.

Neuilly-sur-Seine 1921 – Parigi 2012.

Share