Il tempo non è scivolato su di me,
io gli sono andata dietro,
senza paura.
Non è importante rimanere
giovani e belli,
ma avere
qualcosa da dire e possedere
i mezzi espressivi per dirlo,
al passo con il presente.

Alida Valli

Cento anni fa nasceva Alida Valli, uno degli astri più luminosi del firmamento cinematografico italiano. Su di lei e sulla sua lunghissima carriera – più di centoventi film in settant’anni, tra cinema e televisione – si è detto e si è scritto praticamente tutto. Forse allora un modo per celebrarla degnamente, a quindici anni dalla sua scomparsa, è quello di partire proprio dalla sua voce, nella misura in cui essa è riuscita a sopravvivere nella dimensione silenziosa della pagina scritta.

Alida, questo è il mio nome e a me piace. Fu mio padre a sceglierlo, significa “di nobile stirpe, guerriera”. E sono nata a Pola il 31 maggio 1921. Papà insegnava storia e filosofia al liceo di Como. Si chiamava Gino, amava leggere e scrivere. Fin da piccola mi interessò subito per il suo silenzio. Quando tornava a Pola, adoravo ascoltare le sue poche parole e passeggiare con lui tenendoci per mano. Per me rappresentava il mondo, le cose che non conoscevo, ma io sono cresciuta nel silenzio. Il silenzio tra mio padre e mia madre, il silenzio tra me e gli altri. Se solo riuscissi a parlare come scrivo i miei diari da sempre. Scrivere mi è facile, perché si scrive in silenzio. È la forma più onesta per entrare in contatto con gli altri. Le persone mi dicono: se sei così, come hai fatto a diventare attrice? Non capiscono che per me è uno sfogo, come abbandonarsi a un bel pianto.

Inizia così Alida, il documentario di Mimmo Verdesca dedicato a questa immensa protagonista del Novecento, dalle parole della divagrafia privata di Valli: pagine dei diari (ma anche lettere, appunti, biglietti, cartoline, telegrammi, copioni), che invadono lo schermo, rivelandosi sia sottoforma d’immagine – di traccia materica, calligrafica – sia attraverso la preziosa mediazione fornita dalla voce di un’altra grande attrice, Giovanna Mezzogiorno. E così la scrittura di questo toccante racconto si compone sulla superficie di una tavolozza iperstratificata, in cui si affastellano armoniosamente visioni, testimonianze, luoghi e tempi incompossibili, orchestrando una prodigiosa messa in abisso tra l’universo del cinema e il mondo reale: le immagini inedite che ci restituiscono l’infanzia e la giovinezza di Valli, i primi provini per il Centro Sperimentale, i ritratti, le pose, gli esordi e la fulminea affermazione come “fidanzatina d’Italia” nelle commedie e nei melodrammi d’anteguerra (Bonnard, Matarazzo, Neufeld, Mattioli, Gallone, Soldati, Alessandrini), le sequenze più iconiche della sua carriera d’attrice (compreso l’eclatante breve passaggio hollywoodiano segnato dai ruoli interpretati per Hitchcock e Carol Reed), le partenze e i ritorni, i riconoscimenti e i rifiuti, la passione per il teatro, gli inciampi nella cronaca, le interviste, oltre a numerose incursioni nel suo personale archivio familiare di moglie, madre e nonna.

Non a caso, è il nipote Pierpaolo De Mejo – figlio di Carlo, scomparso nel 2015, a cui il film è dedicato – a fare da guida, riallacciando i fili di questo tessuto memoriale proteso tra mito e storia, in veste di attore e di autore della sceneggiatura. È lui a raccogliere e classificare i segni, ad accompagnare i transiti più significativi, a perimetrare la geografia immaginifica del suo mistero, a farsi presenza genealogica vivente che interviene, di tanto in tanto, a spezzare l’incanto della narrazione – come quando consegna materialmente i premi vinti dalla nonna tra le mani dei registi e dei produttori intervistati o quando, in una singolare sovrapposizione di schermi e di esistenze, mostra allo zio Larry (il secondo figlio di Valli), facendolo commuovere, il video di una vecchia trasmissione televisiva in cui Alida e Carlo parlano con lui al telefono.

La donna Alida è una creatura “simpatica”, gentile, generosa, mite, timida, ironica, emozionata, libera, profondamente allergica a tutte le eccentricità dello star system e per niente asservita al culto dell’eternità. Da questo punto di vista, il documentario lascia emergere il privato della diva in maniera sempre vagamente dissonante rispetto alla imago artistica, scolpita nell’aura leggendaria della sua fotogenia sfingea: gli occhi felini – intrisi di una luminosità violenta, esorbitante, in grado di trapassare qualsiasi velo –, l’ovale cesellato, in cui fronte, zigomi e mento generano un equilibrio miracoloso di ombre, volumi e simmetrie; l’espressione austera, indecifrabile, al fondo inquietante. La sua bellezza aristocratica – segnata nel corso dei decenni da una feroce patina di malinconia che ne perverte (forse troppo) precocemente lo splendore – sposa alla perfezione l’indole dei personaggi che i più grandi maestri del cinema le cuciono addosso (Visconti, Antonioni, Pasolini, Chabrol), senza mai cristallizzarsi nell’utopia asfittica del tipo, nella fissità di un’immagine antica, mitica, schiacciante, ma piuttosto reinventandosi di continuo, adattandosi, sperimentando, mettendosi a servizio degli autori più giovani e dei linguaggi meno convenzionali (Bava, Argento, Marco Tullio Giordana).

Nella ricostruzione operata da Verdesca e De Mejo, ogni incontro fatto nel suo percorso, a cavallo tra la vita e l’arte, restituisce un frammento di questo portentoso ritratto d’attrice, riproponendosi in un’accezione atemporale: Giuseppe Bertolucci, con cui Valli lavora in diverse occasioni – anche se resta indimenticabile, nella sua dissacrante flagranza, soprattutto la sboccata mamma di Cioni-Roberto Benigni in Berlinguer ti voglio bene (1976) –, la definisce “la madre di tutte le attrici”, forse perché sono innumerevoli le madri (molte delle quali folli) a cui ha dato corpo o forse in quanto matrice fisiognomica inconfutabile della femminilità cinematografica italiana; suo fratello Bernardo (che la dirige in Strategia del ragno, 1970, Novecento, 1976, e La luna, 1979), invece, utilizza l’aggettivo “eroica” per descriverne l’attitudine di interprete, sempre pronta a offrirsi in totale nudità, alludendo alla frontal nudity della sua anima. Aspetto rimarcato ancora da Charlotte Rampling, con cui Valli recita in una scena di Un’orchidea rosso sangue (Chéreau, 1975), secondo la quale la fierezza associata ai personaggi da lei ricreati sul grande schermo – su tutti la Livia Serpieri di Senso (Visconti, 1954) – non è mai semplicemente “interpretata”, ma si rivela nella sua naturale magnificenza, come presenza di spirito, espressione piena e incontestabile dell’innato potere di essere e basta.

È proprio l’essenza di Valli a essere (ri)presentata in Alida, come residuo sensuoso disperso nell’ordito multidimensionale del racconto – tra sguardi, bagliori, voci, dissolvenze, ombre e silenzi –, come spettro benigno che torna a infestare la soglia dell’umano desiderio, in attesa di potersi nuovamente manifestare sulla superficie del prossimo sogno (un ricordo, un diario, un articolo, una foto, un film). Come una diva, insomma, evocata dalle parole di un qualsiasi nipote-spettatore, sul finale di un documentario che ci ricorda quanto può essere potente la magia del cinema contro ogni forma di morte:

Cara nonna, con quella dolcezza che spesso ti lasciavi sfuggire mi dicevi sempre “qualsiasi cosa farai tu la farai alla tua maniera” e mi facevi sentire speciale. Ti ho sempre cercata in tutto quello che mi hai lasciato, un bagaglio enorme nel quale spesso ho trovato rifugio e che ora non ho più paura di perdere, perché so che è dentro di me. Vorrei raccontarti tante cose, nonna, vorrei ridere ancora con te, poi abbracciarti forte e avvertire ancora quel profumo che avevi solo tu. D’un tratto però ti vedo e mi accorgo che sei sempre stata qui, che non sei mai andata via. Che ci hai solo aspettato.

C’era una volta Alida Valli… No, così non funziona. Allora proviamo con: Alida c’è ancora… Decisamente no. Forse meglio: oggi Alida Valli rinasce ancora, cento anni dopo, come se fosse la prima volta.

Alida. Regia: Mimmo Verdesca; sceneggiatura: Mimmo Verdesca, Pierpaolo De Mejo; fotografia: Federico Annichiarico; montaggio: Mimmo Verdesca; musiche: Andrea Lucarelli; interpreti: Giovanna Mezzogiorno, Piero Tosi, Vanessa Redgrave, Charlotte Rampling, Bernardo Bertolucci, Margarethe Von Trotta, Thierry Frémaux, Dario Argento, Roberto Benigni, Marco Tullio Giordana, Maurizio Ponzi, Antonio Calenda, Felice Laudadio, Carla Gravina, Mariù Pascoli, Lilia Silvi, Tatiana Farnese, Pierpaolo De Mejo, Larry De Mejo; produzione: Venicefilm, Kubai Film; distrubuzione: Istituto Luce Cinecittà; origine: Italia; anno: 2020; durata: 105’.

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