Volevo parlare di questo argomento, ci credevo, ma non potevo sapere l’effetto che avrebbe avuto. La cosa bella è andare a fine spettacolo, quando mi fermo a parlare una mezz’ora. Diventa una seduta di psicoterapia collettiva, e vengono fuori cose meravigliose, come una signora che davanti a tutti ha avuto il coraggio di dire “Io sono stata Delia, ma non lo sono più!”.
Paola Cortellesi
C’è ancora domani, l’opera prima di Paola Cortellesi da regista, si apre con uno schiaffo: quello di Ivano (Valerio Mastandrea) che risponde così al buongiorno di sua moglie Delia (Cortellesi), quando ancora i due si trovano a letto. L’automatismo del ceffone, che si schianta sul viso della donna in tutta la sua puntuale rudezza da comica slapstick, strappa al pubblico un accenno di risata e dischiude un primo percorso possibile all’interno di un film che evidentemente gioca sui cliché – cinematografici, narrativi e storici – senza mai avallarli del tutto, lasciando il pubblico in sala nel dubbio: abbiamo il permesso di ridere oppure dobbiamo direttamente indignarci?
C’è da dire che il topos del bisticcio tra coniugi è parte integrante di qualsiasi storia a impianto “commedico”: è il superamento della crisi che catalizza il lieto fine, si tratta di un passaggio obbligato che non è possibile omettere o negare, pena lo sconfinamento nel territorio generico attiguo, più incline alle pendenze drammatiche. Tanto per scomodare l’ennesimo riferimento alto, una delle più geniali, nonché sofisticate, screwball comedy del cinema americano classico, Scandalo a Filadelfia (G. Cukor, 1940), comincia con una zuffa clamorosa tra Cary Grant e Katherine Hepburn: Hepburn lo insegue sul patio della villa, mentre lui sta andando via furioso con le valigie in mano, e gli spezza una delle sue mazze da golf (se la spezza sul ginocchio, senza fare una piega, a voler essere precisi); di contro, Grant dapprima si limita a sollevare il pugno, facendo il gesto di colpirla, poi addirittura le mette una mano aperta sulla faccia e la spinge a terra con una forza inaudita. Il tutto senza dirsi una parola.
In questo surreale e impietoso confronto tra coppie cinematografiche rissose – Grant-Hepburn versus Mastandrea-Cortellesi –, non avrebbe senso stabilire primati o individuare possibili riferimenti, più o meno indiretti: perché Cortellesi è, sì, la più brillante e riconoscibile interprete di commedie in Italia, ma è altrettanto vero che con questa sua silenziosa e dolente Delia arriva a plasmare un’altra fisionomia cinematografica, che evidentemente le somiglia e che si propone di ricapitolare alcuni passaggi immaginifici fondamentali della sua formazione d’interprete e di autrice.
Si è parlato insistentemente di Anna Magnani e di neorealismo ed è indiscutibile che tra gli intenti del film ci sia quello di rendere omaggio, anche solo a livello stilistico o di ambientazione, ad alcune pietre miliari del cinema italiano. La storia di Delia è quella di una popolana alle prese con l’ordinario disastrato del dopoguerra: madre di tre figli (due maschietti sboccati e una giovane sul punto di fidanzarsi ufficialmente col figlio del proprietario della gelateria più esclusiva del rione), moglie di un marito ottuso e violento con due o tre vizietti in canna (tra i quali, annoveriamo l’alcol e l’andare a donne), nuora di un vecchio bisbetico allettato (Giorgio Colangeli) che la tiranneggia senza ritegno, le giornate della protagonista si dipanano tra lavoretti sottopagati e faccende domestiche.
Nel fermento di una Roma luminosa, pronta a risollevarsi dalle miserie del recente passato, Delia affronta la vita con la rassegnazione di chi non ha mai avuto scelta e si lascia sopraffare, quasi con grazia, condividendo qualche angoscia con la fida amica fruttivendola Marisa (Emanuela Fanelli) e accarezzando il sogno di un amore mai vissuto in gioventù – quello con il meccanico Nino (Vinicio Marchioni)– che le ha promesso una lettera e che le regala ogni giorno lunghe occhiate languide sulla soglia della sua officina. A un certo punto del film, una lettera effettivamente arriva e nella donna si schiude la consapevolezza di poter contare qualcosa, di avere ancora tempo di cambiare.
In questa vicenda fin troppo comune, affollata di vestiti rabberciati e di passeggiate infinite, Delia fa un po’ la parte dell’eroina dei due mondi, in posa precaria tra il miracolo “commedico” e la disfatta melodrammatica: il suo è un personaggio astratto, rarefatto, immune da qualsiasi rigurgito istrionico, una silhouette in grado di fluttuare sulla superficie dello schermo a passo di danza. Non a caso, nel film palpita una veemente anima “musical” che prende vita sia nella sequenza della “violenza” sia nel sorprendente finale, in cui addirittura Delia canta a bocca chiusa. Non perdiamo però troppo tempo a rinvenire le smorfie altezzose di Hepburn o l’impeto uterino di Magnani nel tessuto della sua umanità decorosa ed essenziale, piegata alla trasmissione di un messaggio altissimo (anzi, di almeno due messaggi!), né tantomeno conviene impantanarsi in sdilinquimenti retorici che, vuoi o non vuoi, finiscono per fiaccare l’energia vitale della pellicola.
La Delia di C’è ancora domani è la sorella (minore nel tempo, maggiore per statura) delle tante donne che hanno plasmato negli anni l’identità artistica di Cortellesi, al cinema e non solo. Tanto per ricordarne qualcuna: la superficiale Alice, che si reinventa escort per garantire una vita dignitosa al figlio dopo la morte del marito e, letteralmente, rinasce nella comunità ruspante della borgata (Nessuno mi può giudicare, M. Bruno, 2011); l’instancabile architetta Serena Bruno, che per avere il lavoro dei suoi sogni si firma “Bruno Serena” e finge di essere l’assistente di un capo inesistente (Scusate se esisto, R. Milani, 2014); la “coattissima” Monica, che gestisce amori e famiglie improbabili senza snaturarsi mai (Come un gatto in tangenziale, 2017, e Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di Morto, 2021, R. Milani); l’insospettabile Paola, che decide di sfruttare le sue armi da agente segreto ministeriale per vendicare i suoi amici del liceo (Ma cosa ti dice il cervello, R. Milani, 2019).
Forte di un gruppo autoriale di successo ormai consolidato (di cui lei stessa fa parte), a questa novella Cortellesi-regista è concesso oggi più che mai il privilegio di sbilanciarsi e di apporre sulla materia filmica il suo sigillo divistico, contrassegnato dalle emanazioni di un talento cristallino e multiforme, che l’ha vista primeggiare anche in teatro, nell’intrattenimento televisivo e nel varietà, e che non ha mai preso le distanze dall’impegno civile. E arriviamo all’annosa questione: Delia siamo noi? Sì, no, forse. Non si deve per forza rispondere, così come in sala non si deve per forza ridere o piangere o indignarsi. Di certo non sbaglia chi in Delia riconosce Paola Cortellesi, perché è segno che potrà riconoscerla ancora domani.
C’è ancora domani. Regia: Paola Cortellesi; sceneggiatura: Furio Andreotti, Giulia Calenda, Paola Cortellesi; fotografia: Davide Leone; montaggio: Valentina Mariani; interpreti: Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Romana Maggiora Vergano, Emanuela Fanelli; produzione: Wildside,Vision Distribution; distribuzione: Vision Distribution; origine: Italia; durata: 118’; anno: 2023.