In un film c’è sempre un movimento segreto, a volte incarnato in un gesto, in un’ossessione, in una tensione. È molto bello il momento in cui lo si riconosce, lo si percorre insieme alle immagini che scorrono. Ancora di più quando il movimento non è uno ma sono molti, si incrociano e si scontrano, a volte creando momenti intensi e folgoranti. Sono i pensieri che emergono dalla visione di Caveman di Tommaso Landucci, il film che il regista toscano ha realizzato sulla figura di Filippo Dobrilla, o meglio sul lavoro dell’artista su un’opera che lo ha impegnato per oltre trent’anni, la realizzazione in una grotta delle Alpi Apuane di una enorme scultura rappresentante un gigante dormiente.
Il primo movimento del film è allora proprio quello del tempo, del tempo della vita di Dobrilla, che Landucci mostra anche in vecchi filmati e fotografie, nei suoi rari incontri, durante le visite alla figlia, e nel tempo lungo delle discese in grotta, che si deposita nello sguardo dello spettatore, e nel tempo della sua visione. Il tempo di quei gesti, dei movimenti misurati con cui Dobrilla scende nelle profondità della grotta o di quelli con cui scolpisce il marmo con martello e scalpello. Un tempo della vita che è anche il tempo della malattia, della lunga degenza e infine della morte dello scultore. Un movimento dunque, quello del tempo che è quello del ripiegarsi, del vivere sempre più in solitudine, eppure in un continuo rapporto con il mondo, con il suo lavoro di scultore, con i suoi pensieri e scritture.
Ma è qui che si apre il secondo movimento, quello della luce che si converte in oscurità, dentro la grotta, all’interno dello spazio espositivo dove viene allestita la mostra delle sue opere, oppure la notte, sdraiato da solo sul letto d’ospedale. Un’oscurità calma, paradossalmente non inquietante (“Sento che sono portato per la vita solitaria, è questo il mio limite”, afferma Dobrilla nel film); un movimento isolante che avvolge il corpo e lo sguardo, dell’artista come dello spettatore. Isolarsi per evitare la dissipazione del tempo e del pensiero, del gesto e della vita: è questo allora il movimento intimo del film che, più che un ritratto si svolge come un accompagnamento dolce, interrogante di un modo di vivere altro, quello che appunto rovescia la dépense, lo spreco, la dissipazione del senso contro cui si scagliava (rovesciandola appunto da gesto della modernità capitalista a gesto rivoluzionario) Georges Bataille. Dobrilla parla poco di fronte alla camera; non si sottrae, ma Landucci lo coglie nei suoi discorsi più intimi, affettivi (con la figlia, la ex compagna, l’amico committente), quotidiani a volte. Poi però la parola emerge, spesso dal buio, dall’isolamento, dai momenti svuotati da altre persone. Sono i pensieri, le parole, le cose scritte dallo scultore. Riflessioni su se stesso e il mondo, sull’agire e l’osservare.
Basta confrontare alcuni momenti del film per cogliere questo ulteriore movimento: quando Dobrilla si reca ad incontrare Vittorio Sgarbi (circondato da un gruppo di persone adoranti) per chiedergli la possibilità di insegnare scultura in una nuova scuola d’arte, il gesto “sociale” del mescolarsi in gruppo è filmato da Landucci con un occhio che si avvicina all’artista in modo da coglierne il disagio, la sua evidente non-appartenenza a quel mondo. Filippo è lì, in mezzo agli altri, e allo stesso tempo è lontano anni luce dalla chiacchiera che lo circonda, dalle frasi prive di interesse che vengono pronunciate (e che noi ascoltiamo a malapena). Rumore di fondo, il vociare allegro del gruppo diventa la concretizzazione di quel principio di entropia di cui parlava Bataille come emblema di una società contemporanea, in cui lo spreco della vita si fa prassi comune.
Come in un fulmineo montaggio, riemergono allora alla memoria le immagini della discesa in grotta di Dobrilla, la lenta preparazione prima della discesa, il procedere lungo le funi fino allo spazio di lavoro, dove il gigante dormiente lo aspetta, pronto a prendere forma lentamente ad ogni colpo di scalpello. Eppure, cosa ci sarebbe di più dispendioso, di meno visibile di un’opera che nessuno (o pochissimi) può vedere? L’opera è inamovibile dalla grotta che la custodisce, è destinata a rimanere nel luogo dove è stata creata, a più di seicento metri dalla superficie; essa non può entrare nel circuito delle gallerie, dei centri espositivi, delle mostre, non può essere oggetto di mercato. Ed è proprio qui che allora il dispendio, la dépense viene rovesciata, esponendola come gesto estremo, sublime, che coincide in fondo con l’obiettivo di una vita. Il gigante dormiente non può essere un’opera inserita nel classico circuito del commercio dell’arte, ma appunto si pone come dono estremo, sottratto alla tirannia dell’utile, direbbe Bataille.
I movimenti del film sono dunque molti, e non cessano di richiamarsi, di incontrarsi nel flusso delle immagini, nelle parole di Dobrilla o nei suoi sguardi silenziosi, sempre alla ricerca di un oltre. È in questo senso che le ultime immagini del film – che Landucci costruisce con una attenzione e una sensibilità notevoli, facendo del rapporto tra vicinanza e lontananza della macchina da presa una sorta di danza lieve, fatta di pudore e di cura – in cui gli amici di Dobrilla depositano sull’ingresso di una grotta sul mare una statua (che vediamo diventare sempre più piccola mentre la barca si allontana e l’immagine sfuma lentamente a nero) diventano il gesto-sintesi di tutto il film, e anche l’idea di un cinema che cerca quello spazio e quel tempo che possono ancora sottrarsi all’utilità.
Riferimenti bibliografici
G. Bataille, La notion de dépense, in “La critique sociale”, n.7, gennaio 1933.
Caveman – Il gigante nascosto. Regia: Tommaso Landucci; sceneggiatura: Tommasi Landucci e Damiano Fermfert; fotografia: Francesca Zonars; montaggio: Loredana Cristelli; musiche: Marcel Vaid; suono: Gina Keller; interpreti: Filippo Dobrilla, Alessandro Benvenuti; produzione: Doclab, Contrast Film; distribuzione: Doclab; origina: Italia, Svizzera; durata: 91′; anno: 2022.