Troppo spesso le analisi sul mondo contemporaneo cedono alla tentazione di spiegare le attuali strutture economiche, sociali, culturali, limitandosi a descrivere i caratteri di una “condizione globale” che sarebbe totalmente inglobante, positiva, uniformante. Così facendo però si perpetua quello che è stato definito «un pregiudizio metafisico del globo» (Sloterdijk 2014, Latour 2020), credendo che davvero la globalizzazione porti a compimento l’ideale di chiusura sferica insita nell’idea di “globo”. Uno studio critico del globale richiede in realtà la ricerca di luoghi in cui le spinte globali si incontrano, ibridano o entrano in conflitto con le pretese universali, le aspirazioni locali, le esistenze particolari. Osservare il presente richiede quindi non solo di constatare le spinte globali del mondo contemporaneo, ma di comprendere come queste spinte entrino, per dirla con l’antropologa Anna Tsing, in frizione con altre istanze, che non sono cancellate o assorbite dal globale, ma che producono di volta in volta conflitti, slanci creativi, dinamiche di adattamento, forme di resistenza (Tsing 2004).
Pur utilizzando un altro orizzonte di riferimenti, è un’urgenza di questo tipo che si percepisce nella lettura del volume di Mauro Carbone e Graziano Lingua dal titolo Antropologia degli schermi. Mostrare e nascondere, esporre e proteggere (2024). Il libro appare come il risultato di un dialogo sviluppatosi nel corso degli anni, e che intreccia i lavori svolti dal gruppo di ricerca di cui Carbone e Lingua fanno parte, Vivre par(mi) les écrans, con riflessioni condotte personalmente e che affondano le loro radici in testi editi quasi vent’anni fa, e di cui pure ancora permane immutata la forza teorica: si pensi a L’icona, l’idolo e la guerra delle immagini (2006) di Lingua, dove l’icona bizantina e il ruolo delle immagini assumevano un valore politico oltre che filosofico e teologico, oppure Essere morti insieme (2008) di Carbone, che cercava nell’11 settembre 2001 le tracce dell’esperienza di una mortalità comune mediata proprio dagli schermi. A questi vanno aggiunti i più recenti Filosofia-schermi (2016) dello stesso Carbone, dove viene definita e articolata la nozione di «archi-schermo» centrale anche in questo nuovo testo, oppure recenti volumi collettivi diretti da Lingua come La cornice simbolica del legame sociale. Prospettive sugli immaginari contemporanei (con S. Racca, 2017) e Technologies de la visibilité. De l’image ancienne à l’image hypermoderne (con A. De Cesaris, 2021).
La sfida proposta dagli autori è di muovere da un’epoché fenomenologica volta a «reimparare a vedere gli schermi» (Carbone, Lingua 2024, p. 7). Ci sembra che una tale sfida risulti fondamentale in vista di una comprensione delle frizioni del globale di cui parlavamo sopra. Proprio un “evento globale” come la pandemia da COVID-19 ci ha svelato la complessità e la persistenza del nostro rapporto con gli schermi digitali. Attraverso di essi, rilevano gli autori, si sono potute conservare le relazioni interumane, coltivarle, svilupparle, perderle o ritrovarle; proprio attraverso tali dispositivi le emozioni e i desideri hanno continuato a circolare. E in questo circolo, anche gli schermi hanno avuto da dire la loro: essi non ci hanno solo trasmesso messaggi, immagini e informazioni, hanno rivestito un vero e proprio ruolo di interfaccia relazionale e interattiva, influenzando il modo in cui relazioni ed emozioni venivano sperimentate. La tesi degli autori è che tale svelamento, lungi dall’essere un’eccezione, è stato in realtà la generalizzazione di dinamiche schermiche cariche di una vera e propria dimensione “antropologica”.
Questa antropologia degli schermi ha dunque anzitutto bisogno di mettere in chiaro che gli schermi non sono delle semplici superfici di mostrazione. Questa concezione ingenua farebbe perdere di vista le quattro «funzioni schermiche» tra loro strettamente intrecciate: mostrare/nascondere, esporre/proteggere. Intento degli autori è evidenziare come queste funzioni – e le esperienze che le accompagnano – siano componenti essenziali delle modalità in cui l’essere umano intesse rapporti con il suo ambiente – e questo non solo nell’epoca contemporanea e non solo rispetto ai dispositivi digitali. Questa disamina approfondisce e chiarisce con numerosi esempi i caratteri della nozione di archi-schermo: l’idea per cui nella storia dell’umanità si danno variazioni delle funzioni schermiche indirizzate a creare partizioni all’interno degli spazi di visibilità, partizioni che riguardano sempre il rapporto degli esseri umani con il loro ambiente.
Dalle pitture rupestri in cui fungono da schermo sia la mano che la parete, alla caverna di Platone, passando per le icone bizantine o l’invenzione del cinema, l’essere umano comunica con l’ambiente che abita collocandosi in uno spazio interstiziale di manipolazione della visibilità, attraverso il suo corpo o attraverso gli oggetti tecnici (fondamentale il riferimento a Leroi-Gourhan che, messo in tensione con McLuhan, rivela il problema dell’esteriorizzazione/estensione delle funzioni umane attraverso la tecnologia, ivi, p. 113). Tuttavia, proprio poiché l’archi-schermo ha sempre a che fare con le modalità del rapporto umano con l’ambiente circostante, il campo delle funzioni schermiche non può essere limitato alla sola questione della visibilità, del mostrare e del nascondere, ma include anche funzioni di esposizione e di protezione: la «capacità di mediare le relazioni che quell’esposizione implica, proteggendosi dagli eccessi» che dall’esposizione all’ambiente possono scaturire (ivi, p. 21).
Ponendo l’accento su come le funzioni schermiche siano sempre interpretabili come modalità umane di abitazione dell’ambiente, diviene possibile ricostruire un orizzonte archeologico alternativo a quello proposto solitamente dagli screen studies o dai visual studies. L’argomentazione che si dispiega nelle pagine del volume permette di comprendere gli schermi come «soglie operative multimodali»: luoghi interstiziali di messa in relazione, attraverso una prospettiva multisensoriale e interattiva, e non relegata al solo uso della vista. È in questo senso che, secondo chi scrive, il volume illustra alcune di quelle frizioni evocate all’inizio. Lo spazio dell’interfaccia, dell’algoritmo, è lo spazio, opaco e massiccio, di incontro di istanze complesse: un linguaggio informatico globale si lega a relazioni personali particolari, ma anche a rivendicazioni universali o a lotte e resistenze locali. Occorre studiare questo spazio, ma anche, e soprattutto, imparare ad abitarlo. L’articolazione delle funzioni schermiche proposte nel volume, nonché i dieci punti finali riguardo un’etica degli schermi, si dirigono proprio in questa direzione.
Nelle sue battute finali, il volume si insinua in un filone di ricerca recentemente messo in luce da varie tradizioni antropologiche e filosofiche: l’idea di una condizione dividuale, che metterebbe in discussione il primato moderno dell’individuo (Strathern 1988, Appadurai 2016, Raunig 2014, Ott 2015). L’interrogazione dei processi di soggettivazione legati alle funzioni schermiche diventa parte, in tal modo, della critica ad una univocità e indivisibilità dell’individuo. Tuttavia, rimane da chiedersi se tali processi di soggettivazione possano parlarci anche del campo del non-umano, del terrestre (Haraway 2016), del planetario (Chakrabarty 2021), insomma di quelle entità che invitano ad un’inventività filosofica esterna allo stretto campo del globale.
Conclusa la lettura del libro viene da chiedersi, insomma, in che misura l’importante proposta di un’antropologia degli schermi possa dirigersi verso quella che potrebbe essere a tutti gli effetti un’ecologia dividuale degli schermi ancora da pensare volta a interrogare i nessi tra le soglie operazionali multimodali di cui si è parlato e il vasto campo del non umano. Per ora, questo libro, oltre a fornire le premesse anche per questo tipo di ricerca, offre un importante esempio di scrittura dividuale volta a rompere i paradigmi spesso stretti dell’autorialità. Con-dividendo i propri retroterra teorici, gli autori hanno saputo fornire una linea argomentativa e una costruzione concettuale e terminologica in cui germogliano idee già pronte ad essere utilizzate in un confronto serrato con il mondo contemporaneo e con le sue sfide.
Riferimenti bibliografici
A. Appadurai, Banking on words. The failure of language in the age of derivative finance, University of Chicago Press, Chicago-London 2016.
D. Chakrabarty, The Climate of History in a Planetary Age, The University of Chicago Press, Chicago-London 2021.
D. J. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, trad. it. C. Ciccioni e C. Durastanti, Nero, Roma 2019.
B. Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, trad. it. D. Caristina, Meltemi, Milano 2020.
A. Lowenhaupt, Tsing, Friction: An Ethnography of Global Connection, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2004.
M. Ott, Dividuations. Theories of Participation, trad. ang. A. Kirkland, Palgrave Macmillan 2018.
G. Raunig, Dividuum. Machinic Capitalism and Molecular Revolution, trad. ang. A. Derieg, Semiotext(e), South Pasadena CA 2016.
P. Sloterdijk, Sfere II. Globi, ed. it. a cura di G. Bonaiuti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014.
M. Strathern, The gender of gift. Problems with Women and Problems with Society in Melanesia, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1990.
Mauro Carbone, Graziano Lingua, Antropologia degli schermi. Mostrare e nascondere, esporre e proteggere, Luiss University Press, Roma 2024.