Come si ripete spesso, capitale deriva dal latino “caput”, capo (di bestiame), e quindi le sue origini sono intimamente legate alla vita (e morte) animale. E tuttavia nell’immaginario collettivo l’esistenza del capitale sembra svolgersi e articolarsi su piani astratti e virtuali, quelli di una sovrastruttura ormai così complessa e così “umana troppo umana” da essersi ben presso emancipata dal suo legame materiale con i corpi non umani. In Capitale animale (2023), recentemente tradotto in italiano, Nicole Shukin mostra invece come il legame – o, meglio, l’inestricabile intreccio – tra capitale e animale sia costitutivo e ineliminabile sia a livello della struttura (il livello materiale) sia a quello della sovrastruttura (il livello simbolico). Il capitale non solo consuma incessantemente i corpi degli animali non umani ma si nutre e alimenta anche dei loro significati immateriali, per cui è necessario comprendere e sbrogliare non solo le sue logiche materiali (il capitale economico) ma anche le sue logiche rappresentative (il capitale simbolico).

Lo strumento che Shukin adotta per quest’operazione è un termine polisemico difficilmente traducibile in italiano (e infatti la traduzione lo conserva nell’originale inglese): rendering. Tra i vari significati del termine, Shukin sceglie di evidenziarne e articolarne insieme due: da un lato l’atto mimetico (la “resa”) del «fare una copia, il rappresentare o interpretare un oggetto attraverso mezzi linguistici, pittorici, musicali, cinematografici o d’altro tipo ancora», e, dall’altro, «il processo di bollitura e di riciclaggio industriale dei resti animali» (2023, p. 45) allo scopo di reimmettere la materia animale sul mercato, entro un nuovo ciclo produttivo. Questi significati sono intrecciati e inscindibili, e questa doppia accezione di rendering permette a Shukin di evidenziare ed esplorare i modi di produzione (basati sullo smembramento e la dematerializzazione) del capitale animale, dove l’animale è sia materialmente che simbolicamente “reso” al servizio – e come elemento essenziale – del capitale, ma allo stesso tempo anche “reso” invisibile e immateriale.

La cattura simultanea sia della materialità che del significato della vita è la prestazione fondamentale di quello che è stato chiamato “biopotere”, e l’analisi di Shukin adotta quindi una prospettiva marcatamente biopolitica. Di fatto questo libro, uscito in inglese nel 2009 (come rielaborazione della tesi di dottorato dell’autrice), è stato uno dei primi ad allargare la prospettiva biopolitica fino a includere i soggetti non umani, tradizionalmente tralasciati dai principali teorizzatori della biopolitica. Negli ultimi quindici anni questo vuoto è stato, se non colmato, almeno arricchito da varie altre proposte teoriche, ma il libro di Shukin ha senza dubbio contribuito a richiamare l’attenzione sul fatto che il bio- della biopolitica, per Foucault come per Agamben e per Negri, si limitava a indicare la corporalità umana e inspiegabilmente dimenticava i corpi non umani. Quando però la vita, tanto nella sua dimensione materiale che simbolica, diventa l’oggetto precipuo della politica, la distinzione tra umano e non umano non tiene più, e diventa quindi necessario allargare l’ambito dell’analisi. Soprattutto dal momento che il capitale, il cui tempo coincide con quello della biopolitica, non fa certo queste distinzioni e, anzi, è proprio dell’animalità – sia umana che non umana, sia materiale che simbolica – che si nutre.

L’allargamento della prospettiva porta l’autrice a proporre di rinominare la biopolitica come «zoopolitica» (ivi, p. 30) e a presentare una serie di genealogie che mostrano l’inestricabile “resa” della vita animale alla base e come fondamento del capitalismo. Queste genealogie hanno tutte la forma della “mobilità” (forse perché la mobilità costituisce l’essenza del capitalismo, che non può mai fermarsi) e sono raggruppate sotto tre etichette: automobilità, telemobilità e biomobilità, che, dopo un primo capitolo sul rendering, costituiscono i temi dei tre capitoli principali del libro. Non è sempre facile seguire i salti logici e teorici tra le varie genealogie, che sono comunque tenute insieme dal filo conduttore del rendering materiale e simbolico dell’animalità da parte del capitale. I vari casi di studio vanno dal debito del fordismo nei confronti dei mattatoi di Chicago alle componenti animali delle pellicole fotografiche, dagli esperimenti di Galvani con le rane alle tante pubblicità che usano simbologie animali, fino al legame tra allevamenti intensivi e malattie zoonotiche. Per noi lettori post-pandemici l’ultimo capitolo su biomobilità ed epidemie zoonotiche è sicuramente quello più attuale, anche se allo stesso tempo dà l’impressione di qualcosa di ormai superato. Le malattie zoonotiche su cui Shukin nel 2009 basava la sua genealogia sono l’epidemia di SARS del 2002-2004 (il primo COVID) e soprattutto l’influenza aviaria H5N1, che ha visto vari episodi epidemici dal 1997 al 2006 con un picco nel 2003. Le dimensioni di questi episodi, tuttavia, sono ben minori e localizzate di quello che abbiamo vissuto a livello globale tra il 2020 e il 2023 con il COVID-19, e il capitolo, se ci mostra quanto l’ultima pandemia non sia stata un episodio né eccezionale né imprevisto, cade anche però nella preistoria del nostro presente (e dei probabili futuri episodi pandemici).

Come per le genealogie dei tradizionali teorici della biopolitica, anche lo scopo delle genealogie “controegemoniche” di Shukin è quello di svelare ma anche, allo stesso tempo, di disattivare i dispositivi che descrive. L’individuazione del rendering come logica del biopotere è quindi accompagnata da una terza e ultima accezione del termine: un rendering che sia critico, una “mimesi critica” che ha come scopo quello di “rendere” diversamente la vita animale, di distorcere e ristrutturare le logiche rappresentative e quindi anche quelle economiche che organizzano il capitale animale. La teoria biopolitica della mimesi che Shukin propone mira quindi in ultima istanza a ristrutturare, riorganizzare, riplasmare la mimesi stessa e i discorsi del capitale animale per produrre altre immagini di natura e di cultura. La parte “affermativa” rimane, come spesso accade, in filigrana rispetto alle genealogie del potere. Ma la pars destruens è il primo passo necessario per poter un giorno proporre una mimesi alternativa, per poter escogitare quelle che l’autrice chiama, in conclusione, «alternative vivibili al presente» (ivi, p. 384).

Nicole Shukin, Capitale animale. Biopolitica e rendering, Tamu Edizioni, Napoli 2023.

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