Presentato come evento speciale delle Giornate degli Autori all’80esima Mostra del cinema di Venezia, con Bye Bye Tibériade la regista Lina Soualem ripercorre la storia delle donne della propria famiglia che vivono o hanno vissuto un rapporto intenso e profondo con il luogo natio, chi è dovuta fuggire a causa di un esilio e chi è andata via per cercare nuovi stimoli e libertà. Un luogo che negli anni e nelle generazioni viene ri-scritto e ricostruito, malleato, attraverso diversi racconti e testimonianze. Hiam Abbass, nota attrice franco-palestinese-algerina, madre di Lina, decide di abbandonare il villaggio in cui è nata, Deir Hanna, adesso territorio israeliano, ormai più di trent’anni fa, per inseguire il sogno di lavorare nel cinema. L’allontanamento porta la donna a scontrarsi con la famiglia, in particolar modo con il padre, che non vuole che la figlia si sposi con un ragazzo straniero e si trasferisca in Inghilterra. Hiam si sposa e dopo poco divorzia, si trasferisce in Francia e si sposa nuovamente, questa volta con Zinedine Soualem, il padre di Lina, da cui divorzierà. Tuttavia, il film, piuttosto che raccontare la carriera e l’ascesa della donna come attrice, vuole interrogarsi sul ruolo della figura femminile all’interno della famiglia e di come siano stati tramandati valori culturali e memoriali nonostante l’esilio e il dolore vissuto.
Fin dall’apertura del film, Hiam mostra subito la sua reticenza nel raccontare la propria storia, dicendo alla figlia di “non aprire ferite del passato”. Dopo essersi allontanata da Deir Hanna, la donna ritorna più volte al paese di origine con Lina la cui presenza serve a riconciliare il rapporto con la madre e le sette sorelle. La donna si sentiva soffocata dai suoi stessi cari, in quell’ambiente, con determinate regole e un destino già scritto. Ha scelto di andare a fare l’attrice piuttosto che aiutare in casa, le rinfaccerà la madre rimasta vedova da giovane. “La Palestina è la mia casa. È il luogo che racchiude la mia infanzia, i miei sogni, la mia adolescenza e tutto ciò con cui sono cresciuta. Ma me ne sono andata per determinati motivi, quindi tornare in quel luogo non è sempre stata una cosa facile”, racconta Hiam. Da una parte quindi l’appartenenza ad un luogo, rimasto nella memoria, dall’altra la necessità di dover fuggire per cercare nuovi stimoli. Il momento dell’allontanamento però rimane un evento traumatico, “Penso che sappiamo come diventare madri, ma non sappiamo mai come separarci da una madre”, confida ancora la donna alla figlia. L’attrice parte dalla sua storia personale per raccontare quella della madre, dovuta scappare insieme alla propria famiglia nel 1948 a seguito della Nakba, il grande esodo che portò settecento mila arabi palestinesi ad abbandonare città e villaggi rientrati nel dominio israeliano. La donna riesce a fuggire verso il Libano e poi a stabilirsi a Deir Hanna, senza la possibilità di tornare in territorio palestinese, mentre la sorella, Hosnie, viene bloccata in Siria. Vivrà a Yarmouk, il più grande campo profughi palestinese al mondo, ormai smantellato con la guerra civile, e solo dopo trent’anni, attraversando clandestinamente il confine, riuscirà a ricongiungersi con la sorella e gli zii. L’appartenenza ad un luogo che non esiste fisicamente più ma che continua a vivere e rivivere nei ricordi e nelle loro manifestazioni rappresenta la condizione palestinese. La chiave, quella della propria abitazione espropriata dall’occupazione israeliana, confiscata e abbattuta, diventa simbolo della lotta per l’autoderminazione e per le rivendicazioni politiche e storiche, come l’indigenità e la proprietà della terra. Il legame con la propria terra risulta così forte da venir trasmesso alle terze e quarte generazioni che seppur non hanno vissuto l’esodo sentono un rapporto viscerale con un luogo che fisicamente non esiste più se non nei ricordi e nelle memorie dei propri familiari.
Bye Bye Tibériade cerca proprio di dare concretezza a questo sentimento di appartenenza mostrando il luogo del ricordo. Lina, la regista del documentario, unica ad essere nata in Francia e non in Palestina, sente un legame forte con la Storia della propria famiglia che è inevitabilmente intrecciata a quella della terra di origine. La forma cinematografica, nel processo di ri-scrittura storica e mnemonica, diventa dispositivo di memoria, immagazzinando informazioni e preservandole nel tempo, così come mediatore della memoria, strumento atto a contribuire alla definizione e ridefinizione dei caratteri identitari, dell’immaginario collettivo e della memoria culturale. Le immagini del presente, il ritorno di Haim al villaggio natale con le sorelle, la sua testimonianza attraverso i diari e le poesie scritte da adolescente, si alternano con le immagini amatoriali realizzate dalla famiglia, durante momenti di svago, gite, compleanni e cerimonie. Le immagini del passato assumono ancora un valore testimoniale, rappresentando la realtà di un posto che è scomparso. “Le immagini sono il tesoro della mia memoria e non voglio che svaniscano”, sottolinea la regista, che raccontando la storia della propria famiglia, di quattro generazioni di donne, del forte legame di sorellanza, rivendica il patrimonio sia personale che audiovisivo che ha ereditato, così come l’appartenenza ad un luogo che continuerà ad esistere nelle memorie e nelle immagini. Il film va a consolidare l’assunto proposto da Edward Said, che afferma che il cinema palestinese propone «un’alternativa visiva, un’articolazione visiva, un’incarnazione visibile dell’esistenza palestinese negli anni successivi al 1948» (Said 2006, p. 3).
Riferimenti bibliografici
E. Said, Preface, in H. Dabashi, a cura di, Dreams of a Nation: On Palestinian Cinema, Verso, London 2006.
Bye Bye Tibériade. Regia: Lina Soualem; sceneggiatura: Lina Soualem, Nadine Naous, Gladys Joujou; fotografia: Lina Soualem, Frida Marzouk, Thomas Brémond; montaggio: Gladys Joujou; interprete: Hiam Abbass; produzione: Beall Production, Altitude100 Production, Philistine Films; distribuzione: JHR Films; origine: Francia, Palestina, Belgio, Qatar; durata: 82′; anno: 2023.