Sin dalle prime sequenze di Breath, eco-documentario d’esordio di Ilaria Congiu, si percepisce una tensione sottile, quasi claustrofobica: quella di un mondo che fatica a respirare. Le reti che avvolgono i banchi di tonni, le gabbie marine sospese nell’acqua, le architetture industriali che imprigionano uomini e animali sembrano manifestazioni diverse dello stesso principio: il dominio attraverso il contenimento. Patrocinato da Legambiente ed Extinction Rebellion, Breath è un viaggio insieme autobiografico e politico tra Senegal, Tunisia e Italia, dove la regista – nata e cresciuta in Senegal – intreccia la propria storia familiare con un’indagine sul collasso ecologico innescato dalla pesca industriale.

Attraverso un linguaggio visivo contemplativo ma mai compiaciuto, il film restituisce la complessità della crisi marittima: sovrasfruttamento delle risorse, desertificazione dei fondali, inquinamento da plastiche visibili e invisibili, bycatch sistemico. Ma il cuore del film non sta solo nell’analisi ecologica: Breath è anche una riflessione sulla frattura emotiva e culturale che separa l’uomo dal mare, le generazioni tra loro, la memoria dall’esperienza. La gabbia, simbolo centrale del documentario, non è soltanto struttura materiale, ma anche dispositivo mentale, sociale e affettivo.

L’“arte” della gabbia – che ha attraversato i millenni, dalle menagerie dell’antico Egitto alle strutture iperautomatizzate come il Pig Palace cinese – trova oggi la sua forma più esasperata nei sistemi dell’allevamento intensivo e dell’acquacoltura industriale. In quest’ultima, la cosiddetta cage culture riproduce in mare ciò che avviene a terra: recinti reticolari che, pur consentendo il passaggio dell’acqua, limitano il movimento degli animali, causando stress e lesioni. La pesca pelagica impiega reti ciclopiche come le “tonnare volanti”, coordinate anche tramite droni, che accerchiano e intrappolano i grandi migratori oceanici. Una volta catturati, molti di questi pesci vengono trasferiti in gabbie di ingrasso, vere e proprie prigioni sottomarine che replicano le logiche di sfruttamento già viste sulla terraferma.

Breath documenta tutto questo con lucidità, evitando tanto il didascalismo quanto l’eco-ansia apocalittica. Le inquadrature – alternando riprese subacquee, vedute aeree, slow motion pittorici e frammenti VHS dell’infanzia della regista – restituiscono una narrazione stratificata, che accosta la denuncia ambientale all’introspezione. In questo senso, la forza simbolica della gabbia si riflette nel legame tra Ilaria e suo padre Francesco: una relazione affettuosa ma attraversata da una tensione etica, che riflette la contraddizione tra partecipazione e critica al sistema industriale. Una dinamica simile attraversa le comunità costiere ritratte, dove i pescatori artigianali si trovano spesso penalizzati da normative internazionali pensate per proteggere gli ecosistemi, ma che in pratica favoriscono le grandi flotte capaci di aggirarle o sfruttarle.

Eppure, il documentario non cede al pessimismo. Al contrario, si apre alla possibilità della riconnessione, della guarigione. Riprendendo le riflessioni di Anil Narine e di Judith Herman sul trauma, Breath suggerisce che la fuoriuscita da un sistema soffocante – personale, economico o ecologico – non può avvenire nell’isolamento, ma solo nel contesto relazionale. Il ritorno della regista nella propria terra d’origine dopo quasi dieci anni diventa così un atto di ascolto e comprensione: delle persone, del mare, degli animali che lo abitano.

In definitiva, Breath si impone come un’opera prima sincera e consapevole, capace di intrecciare intimità e analisi globale senza ricorrere a soluzioni facili. È una dichiarazione d’amore per il mare, ma anche una critica misurata al paradigma produttivista che lo sta distruggendo. Nell’ultimo sguardo sul mare, là dove il padre allude con disincanto alla “frattura metabolica” tra umanità e natura, il film lascia intravedere un’altra possibilità: che la gabbia possa essere disattivata, se impariamo a respirare con il mondo, e non contro di esso.

Riferimenti bibliografici
Cocuzza, G. Sottile, a cura di, Frattura metabolica e Antropocene. Saggi sulla distruzione capitalistica della natura, Edizioni Smasher, Barcellona Pozzo di Gotto 2023.
A. Narine, Eco-Trauma Cinema, Routledge, Londra 2014.
D. Zagaria, In alto mare. Paperelle, ecologia, Antropocene, ADD Editore, Torino 2022.

Breath. Regia: Ilaria Congiu; sceneggiatura: Ilaria Congiu, Giulia Arcovito, Luca Carrera; fotografia: Marco Petrucci, Gabriele De Palo; montaggio: Luca Carrera; interpreti: Ibrahima Samb, Domenico Mendolia, Silvio Greco, Rym Benzina Bourguiba, Alessia Zecchini, Francesco Congiu, Ilaria Congiu; produzione: Mediterraneo Cinematografica, Propaganda Productions; distribuzione: Mescalito Film; origine: Italia, Francia, Tunisia; durata: 72’; anno: 2024.

Share