Quando l’anno scorso il Teatro alla Scala annunciò che la stagione 2022/23 si sarebbe aperta con il Boris Godunov di Modest Musorgskij nessuno, neanche lontanamente, aveva pensato che l’evento a distanza di pochi mesi avrebbe assunto un significato politico così importante. Anzi, la notizia era stata accolta con entusiasmo da chi negli ultimi anni aveva nutrito perplessità sulla direzione artistica del teatro milanese da parte di Riccardo Chailly che, dopo l’importante stagione guidata da Daniel Barenboim, sembrava rappresentare un arretramento complessivo del teatro su scelte di repertorio conservative e poco coraggiose, se non addirittura del tutto discutibili (a partire dallo spettacolo A riveder le stelle realizzato con le restrizioni Covid nel 2020 insieme a Davide Livermore).

Scegliere di aprire con Boris Godunov, pietra miliare della musica ottocentesca e magnum opus di Musorgskij e di tutta la tradizione russa, ma non certo un titolo capace di intercettare gli interessi del pubblico televisivo oltre i confini della musica classica (almeno in Italia), significava finalmente ridare alla più importante istituzione musicale del nostro Paese un ruolo educativo e pedagogico, oltre che meramente artistico e culturale (sulla scia di quello che fecero Abbado negli anni settanta, Muti nei novanta e Barenboim nei duemila).

Per ragioni evidenti e all’epoca imprevedibili, il 7 dicembre 2022 ha assunto dunque un significato politico di rilevanza internazionale, sottolineato dalle prese di posizione (su fronti ovviamente opposti) dei governi russi e ucraini, dalla presenza in sala della presidente europea Ursula von der Leyen, e più in generale dalla sensazione che la prima alla Scala tornasse dopo molti anni a rappresentare un evento cruciale della cultura europea (anche se per ragioni ad essa estrinseche e legate agli scenari mondiali). Non c’è evidentemente bisogno di ribadire come qualunque orizzonte politico non debba e non possa giustificare alcuna forma di ostracismo o condanna nei confronti di qualsivoglia artista e opera d’arte, specialmente, come in questo caso, se espressione di una cultura immensa che il mondo ha il dovere di continuare a celebrare al di là di quelli che sono e saranno gli scenari presenti e futuri. L’arte di Musorgskij (come quella di Dostoevskij, Puškin, Tolstoj, Čajkovskij, Cechov e di un’infinità di altri nomi) rimane un patrimonio dell’umanità e una delle espressioni più significative di una tradizione che ha segnato profondamente la nostra vita e i valori che la permeano.

Ma questa produzione del Boris Godunov ha un valore ulteriore, del tutto autonomo, che eccede qualsiasi contingenza politica o strategia culturale. In primo luogo esso è legato alla scelta di Chailly (per la prima volta alla Scala) di proporre la prima versione del 1869 orchestrata da Musorgskij, lontana anni luce dalla riorchestrazione tardo-romantica e wagneriana di Rimskij-Korsakov che aveva segnato il successo dell’opera per gran parte del Novecento. Una prima partitura sconvolgente, che Musorgskij concepì appositamente per distaccarsi tanto dalle tradizioni italiane e tedesche quanto da quelle della Grand Opéra francese (di cui invece è debitore l’Onegin di Čajkovskij, l’altro grande capolavoro operistico russo ottecentesco). Un testo musicale tra i più audaci che siano mai stati concepiti, capace di anticipare le drammaturgie musicali della scuola di Vienna, costruito su fantasie timbriche incendiarie (a partire dal Gloria cantato dal coro nel Prologo), su armonie aspre e novecentesche mescolate a motivi della tradizione popolare (si pensi alla canzone di Varlaam nel Primo Atto), in grado di scolpire la solitudine tragica del protagonista Boris, lo zar regicida rovesciato dal suo popolo, intessendo trame complessissime che trasformano la forza letteraria del libretto (scritto da Musorgskij stesso e basato sul dramma omonimo di Puškin) in un abisso musicale universale.

Proprio attorno alla dialettica tra Boris (interpretato da un Ildar Abdrazakov degno erede del Ghiaurov di Karajan) e il suo popolo (il coro della Scala guidato da Alberto Malazzi in stato di grazia) si gioca infatti gran parte della forza di un’opera che attraverso un linguaggio musicale completamente originale è capace di richiamare la grandezza di Shakespeare e anticipare l’espressionismo di Berg, uscire dalle architetture melodiche romantiche per aprire la strada alle prospettive etnomusicologiche di Bartok e Stravinsky. Il tutto in funzione della costruzione di un’epica russa dove il piano storico e mitico (le vicende dello zar Boris all’inizio del 1600) è il dispositivo che serve a Musorgskij per parlare del presente ottocentesco, in cui iniziano a serpeggiare quei moti rivoluzionari (l’attentato ad Alessandro II è del 1881) che sfoceranno nella Rivoluzione d’ottobre.

In questa struttura acronica del tempo, se vogliamo, consiste il wagnerismo di Musorgskij, che è costantemente richiamato dalla regia di Kasper Holten e dalla messa in dialogo delle due epoche storiche attraverso i costumi e le scenografie, che a loro volta compongono grandi pannelli su cui sono proiettati i “manoscritti” di quell’epica che l’opera intende costruire. Contrariamente al lavoro iconografico e universalizzante che fece Tarkovskij nella già citata edizione di Abbado a Londra, Holten sceglie una strada politica e shakespeariana, che non è esente da punti critici (la scelta di mostrare il piccolo Dimitri ucciso da Boris come fosse il fantasma di Banco è banalizzante e del tutto superflua) ma rimane complessivamente valida.

Dopo molti anni, con Boris Godunov la Scala torna dunque a essere il più importante teatro italiano. Speriamo sia di buon auspicio per il futuro.

Boris Godunov. Musica: Modest Petrovič Musorgskij; libretto: Modest Petrovič Musorgskij; direttore: Riccardo Chailly; regia: Kasper Holten; maestro del coro: Alberto Malazzi; scene: Es Devlin; costumi: Ida Marie Ellekilde; luci: Jonas Bøgh; video: Luke Halls; interpreti: Ildar Abdrazakov, Lilly Jørstad, Anna Denisova, Agnieszka Rehlis, Norbert Ernst, Alexey Markov; anno: 2022.

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