The Substance è un film impegnativo, a tratti esteticamente disagevole, sempre più gravoso man mano che la trama, perfetta, si compie. È terribilmente elegante, indicibilmente disgustoso, citazionista al punto giusto. Uno di quei film che richiedono un certo sforzo al pubblico. Non fosse altro per l’uso intenso, meglio ancora corpulento, della carne. Il visivo e il sonoro hanno la stessa materialità del corpo: una materia organica che si sdoppia, si taglia, si ricuce, si connette a sostanze misteriose tramite aghi, flebo, contenitori di liquidi opachi, fino ad aprirsi, disorganizzarsi, spezzarsi, ed infine scoppiare lasciando appena una traccia di sangue. 

La trama in breve è la seguente: Elisabeth è una star televisiva di un programma di fitness, con tanto di stella sulla walk of fame. In vista di un allontanamento a causa della sua età, cinquanta anni compiuti, sente di non poter rinunciare alla speranza di un pubblico che l’avrebbe infine adorata. Elisabeth si alimenta della sua immagine riprodotta in serie e in gigantografie un po’ ovunque. In un momento di disperazione, contatta un misterioso numero di telefono, lasciatole da un infermiere anonimo. Sedotta dallo specchio delle sue brame: una se stessa “migliore”. Il mito della perfezione che si realizza. Si trova ad accettare una sorta di protocollo medico, The Substance, e le sue relative istruzioni, per potenziare e migliorare il proprio corpo tramite una serie di passaggi e attrezzature. Tutto per ritrovare un nuovo sé, senza però abbandonare il vecchio.

Procede con il primo ago e la sostanza si attiva: il suo corpo si lacera, aprendosi sulla schiena. Da lì esce Sue, una ragazza più giovane e sexy. Perfetta appunto. La regola è che Sue potrà “sostituirla”, al massimo per una settimana. La settimana successiva tornerà ad essere la cinquantenne Elisabeth. Entrambe si alimentano reciprocamente, la nuova arrivata viaggia nel mondo, l’altra rimane in letargo sdraiata in bagno. Ma come è giusto che sia, qualcosa va storto e la bella Sue, prodotto immaginario tanto quanto reale inizia a prendere più tempo. Diventa la star dello show che prima era di Elizabeth e prende il suo posto sulle gigantografie dei cartelloni pubblicitari: una teoria di immagini del suo culo ipnotizza i telespettatori. Ma ogni effrazione della regola delle settimane alterne sarà giocata sul corpo di Elisabeth e qui ci fermiamo.

La trama perfetta del film si presta inevitabilmente a diverse letture. Da quella politica sul dominio maschile sul corpo della donna ad una critica delle logiche dell’apparenza, dalla presa anoressica sul corpo al superamento dei limiti da parte delle bioteconolgie. Non sappiamo se la regista, Coralie Fargeat, abbia letto Lacan o quanto ne sappia di psicoanalisi ma The Substance è un capolavoro di sintesi dei tre registri lacaniani. Sembra quasi che ci si possa chiedere quale sia il rapporto tra immaginario e reale quando la dimensione simbolica perde la sua presa. 

Nella psicoanalisi lacaniana, i concetti di reale, immaginario e simbolico sono tre registri fondamentali che descrivono differenti modalità di esistenza e di esperienza del soggetto. Forse Lacan non sarebbe stato d’accordo ma potremmo spingerci a dire che sono categorie ontologiche. Non sono categorie separate, ma piuttosto interagiscono e si intrecciano costantemente nel processo di formazione e di trasformazione dell’individuo. E di ciò che è. 

Il reale è ciò che sfugge alla rappresentazione, all’immagine e al linguaggio. È l’aspetto della realtà che non può essere detto, che non può essere simbolizzato, ed è spesso legato a ciò che è “impossibile” o “irriducibile” all’esperienza consueta. Il reale è il lato più “opaco” dell’esperienza: non è una realtà percepibile o comprensibile attraverso i sensi o il linguaggio, ma è ciò che emerge come un “blocco” o una “rottura” nel processo simbolico. Non è dato reale se non nel legame con il linguaggio, come un suo resto, come ciò che fa resistenza e che eccede strutturalmente il significante. 

L’immaginario è il registro delle immagini, delle identificazioni e delle illusioni, ed è strettamente legato alla formazione dell’Io. Lacan lega il concetto di immaginario all’esperienza che il soggetto fa del proprio corpo attraverso lo specchio, un momento cruciale che definisce la formazione dell’Io. L’immaginario riguarda quindi le immagini con cui il soggetto si identifica e le illusioni che derivano da queste identificazioni. In questo registro, il soggetto cerca di costruirsi un senso di coerenza e di identità, spesso attraverso una rappresentazione idealizzata di sé. Ma attenzione anche il delirio si iscrive nel registro dell’immaginario.

Il simbolico è il registro del linguaggio, delle leggi e delle norme sociali e culturali. È il dominio della strutturazione sociale, delle relazioni interpersonali mediate dal linguaggio e dei significati condivisi. Il simbolico è la dimensione in cui il soggetto si inserisce nel mondo attraverso la comunicazione, l’identificazione e l’iscrizione in una rete di significati. Esso è regolato da ciò che Lacan chiama il Nome-del-padre, che rappresenta la legge e l’interdizione che consente l’ingresso del soggetto nel linguaggio e nella cultura.

L’interazione tra il reale, l’immaginario e il simbolico è costante e interdipendente. Il soggetto è inserito in una rete simbolica di significati e norme, ma è sempre segnato da un reale che sfida questa rete e da un immaginario che tenta di creare unità e coerenza. Il simbolico produce quel resto che va sotto il nome di reale: non smette di produrre il reale, ma in un modo particolare, organizzandolo. I calcoli, le equazioni, la grammatica, la prevedibilità di ciò che è, sono il rapporto del simbolico con la realtà. Il reale è l’impossibile di questo rapporto. Anche l’immaginario tocca il vivente e produce reale. A dirla tutta vivente, realtà, dovrebbero entrare in una sorta di quarto registro che tiene insieme i tre anelli, come se fosse la loro origine. Lacan non sarebbe d’accordo forse. Da qui in poi avrebbero dovuto parlarsi lui e Derrida. Questo gli avrebbe spiegato che non c’è origine se non nella traccia. Ma questo è un altro film e torniamo sul nostro. 

Il problema di Elisabeth è che la stella sulla walk of fame, unico riferimento al simbolico del film, regge poco. Essere la stella del cinema inizia a fare crepe, perché essere simbolicamente una stella del cinema non regge senza l’immagine perfetta del culo a sua volta sostenuta dalla materialità della carne, l’effetto di reale che ha. Il simbolo sostituisce la cosa, come ci insegna Hegel: Elizabeth avrebbe potuto accontentarsi di diventare simbolo della diva che era stata, ma per fare questo avrebbe avuto bisogno di elaborare il lutto del proprio corpo che invecchia e della propria carriera in declino. Con il lutto il simbolo sostituisce la cosa.

Al contrario Elizabeth vuole connettere direttamente immaginario a reale, vuole cioè riprodurre all’infinito l’immagine di se stessa perfetta che rinasce dalla carne del suo corpo. La voce misteriosa al telefono non smette di ricordare ad Elizabeth che lei è “una”. Ma lei insegue il suo ideale, Sue. L’ideale la fa diventare “due”. L’immagine prende corpo, produce un reale, si svincola dall’uno della matrice. Elizabeth, in quanto quell’una iniziale, è una matrice, come ci ricordano anche le istruzioni del protocollo medico nel film. Quando l’immagine ideale si ribella alla matrice simbolica dell’attribuzione di identità, singolarità, unità mente-corpo, Sue diventa un mostro: si trasforma in un corpo fatto di pezzi assemblati in una deformazione infinita di carne. Un seno viene espulso da un buco sul viso a forma di occhio con tanto di cordone ombelicale. È l’immagine allo specchio che senza l’attribuzione di parole non tiene e anzi esplode. È il bambino davanti allo specchio senza accanto un mammifero dotato di linguaggio e di psiche che gli dica: “Sei tu!”. 

Eppure l’immaginario è uno strumento molto potente. Tutta la storia dell’umano testimonia il ruolo trasformativo dell’illusione. È stato delirante immaginare di andare sulla Luna, ma non dopo il 1969. Nell’Anti-Edipo Deleuze e Guattari creano un loro sistema diagnostico: il perverso scambia il processo per il fine, il nevrotico blocca il processo, lo schizofrenico lo rende infinito. Deleuze e Guattari avrebbero detto a Elizabeth di usare solo un po’ più di prudenza. 

The Substance. Regia, sceneggiatura: Coralie Fargeat; fotografia: Benjamin Kracun; montaggio: Jérôme Eltabet, Coralie Fargeat, Valentin Féron; effetti speciali: Pierre-Olivier Persin; musiche: Raffertie; scenografia: Stanislas Reydellet; costumi: Emmanuelle Youchnovski; produttori: Tim Bevan, Eric Fellner, Coralie Fargeat; produttori esecutivi: Alexandra Loewy, Nicolas Royer; produzione: Working Title Films, A Good Story Production; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Regno Unito; durata: 140’; anno: 2024.

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