Nella cultura giapponese da sempre figura una predilezione per tutto ciò che è carino, piccolo, adeguatamente proporzionato. L’interesse nei confronti di oggetti di dimensione ridotta, così connaturato alla coeva sfera culturale del paese, già agli albori del periodo Edo (1603-1868) trova espressione nei netsuke, piccoli fermagli ornamentali per le cinture dei kimono, divenuti di moda proprio perché veicoli di un sentimento estetico dalla configurazione appagante. Ma è solo in tempi moderni che questo senso di attrazione nei confronti di oggetti/feticci dalle forme sinuose e pacificanti assume una definizione precisa, trovando negli orizzonti semantici del “kawaii” la sua formula d’espressione più naturale e organica.
Derivato dal sostantivo kawaisa (che potremmo tradurre come “carineria”, “dolcezza infantile”), kawaii non solo è uno degli aggettivi più usati dalle liceali giapponesi «per definire tutto ciò che attrae il loro interesse o la loro curiosità, senza impegnare giudizi di gusto più profondi» (Ghilardi 2010, p. 154) ma è la direttrice di un modo di essere e sentire, che dagli anni settanta in poi, definisce i codici e le strutture su cui le generazioni di giovani sedimentano le proprie logiche di consumo/espressione.
E dal momento che in Giappone le strategie di soft power culturale hanno come centro e punto terminale i prodotti d’animazione, ecco che gli anime a tema adolescenziale arrivano ad integrare nelle loro ramificazioni iconografiche tutto quel portato di sentimenti e idiosincrasie interno alle fondamenta dialogiche del kawaii. È in questo senso allora che il filone degli shōjo manga – e di conseguenza un’opera come Bocchi The Rock! – diventa lo strumento ideale attraverso cui inverare la verbalizzazione estetica di un discorso culturale più ampio, che trova nell’aspetto sgargiante e (ultra)stilizzato delle eroine animate il suo contraltare espressivo.
In Bocchi The Rock! infatti, ogni azione, segmento o codice estetico, sembra urlare la propria appartenenza ai panorami figurativi di cui sopra. Se per Gomarasca, kawaii è assimilabile a tutto ciò «che finisce in “ino”, che è infantile, asessuato, dolce, indifeso, che è oggetto di coccole» (Gomarasca 2001, p. 61) è evidente come l’adattamento del manga di Aki Hamaji curato dallo studio CloverWorks leghi le sue istanze comunicative ad una rilettura infografica della “cultura del carino”. E lo fa servendosi di tutti quegli strumenti espressivi che la cel animation mette a disposizione degli autori/animatori – dalle conformazioni rotondeggianti dei tratti somatici delle protagoniste, alle tavole cromatiche più appariscenti, fino alle soluzioni visuali in stile super-deformed – anche (e soprattutto) in un contesto di profonda e costante contaminazione con le derive iperrealistiche della CGI.
Partendo dalla storia di Hitori “Bocchi” Gotō, una ragazza anti-sociale che affoga le proprie idiosincrasie nella musica rock e che, su esortazione della coetanea Nijika, si unisce alla sua band come via di liberazione dalle maglie dell’introversione, l’anime propone un ragionamento sistematico su cosa significhi costruire, in termini estetico-plastici, una narrazione sulla dimensione culturale del kawaii, rivelando al tempo stesso anche la metodologia più adatta (e ontologicamente affine) a tradurne i codici in senso figurale.
I comportamenti stravaganti – e quindi, teneri e dolci – della protagonista diventano qui il viatico iconografico di una serie di elementi estetici, formali, espressivi, che portano le proprietà iconiche dell’immagine animata ad inglobare i canoni intrinseci alla cultura in questione. Il sentimento kawaii viene così espresso non solo attraverso la configurazione adorabile e graziosa delle quattro amiche/musiciste – ognuna delle quali, non a caso, sfoggia una pettinatura altisonante dai colori accessi e vibranti, oltre ad occhioni grandi e appariscenti – ma in particolare grazie a registri e modelli “sopra le righe” che a partire da un processo estremo di stilizzazione dell’immagine, restituiscono bene la (in)verosimiglianza di spazialità prive di imperfezioni e irregolarità.
Le anatomie infantili delle protagoniste riflettono così un ideale di bellezza scevro di connotazioni sessuali o impurità formali, che nel corso della narrazione non si arresta al solo livello iconografico, ma interessa tutto quel delirio orgiastico di cromatismi, deformazioni cartoonesche e ibridismi animati, su cui Bocchi The Rock! sublima l’insieme delle strategie estetiche che ne compongono il vasto (ed eclettico) campionario (audio)visuale. In linea con gli omologhi del genere di appartenenza – i cosiddetti CGDCT, ovvero “Cute Girls Doing Cute Things” in stile Nichijou (2011) e K-ON! (2009) – per adeguarsi alle logiche kawaii l’anime in questione adotta una serie di strategie di distanziamento/straniamento che portano i suoi mondi oltre la cornice della realtà fenomenica.
In questo modo le incursioni nella mente di Bocchi non appartengono più ad una dimensione interna: le sue fantasie di escapismo assumono concretezza direttamente nello spazio esterno, come se il suo “io interiore” dissolvesse le barriere che separano il piano della mente dal visibile. Ciò significa, secondo l’analisi che Olaf Möller propone delle coordinate identitarie dei racconti kawaii, «che tutti gli effetti tipici del genere […] non solo provvedono un elemento che appaga il desiderio […] ma contribuiscono a un particolare tipo di identificazione con i diversi personaggi» (Möller 2001, p. 111) che tiene lo spettatore a distanza, garantendogli di conseguenza uno «sguardo più critico sul loro carattere» (ivi, p. 112).
Dietro le soglie di una comicità strabordante, che disintegra ogni parvenza di realismo in nome della dissacrazione fisica – alla dilatazione/decompressione dei corpi e dei volti, segue la progressiva perdita di referenza dell’ambiente esterno – si nasconde infatti un forte sostrato socio-politico, che ri-allaccia le dinamiche del racconto di formazione alle necessità delle giovani (spettatrici) giapponesi di individuare un’àncora di salvezza dalle pressioni societarie proprio negli angoli più assurdi e risibili della psiche umana. Del resto, Bocchi The Rock! sa bene che le strategie di mercificazione a cui storicamente tendono le logiche kawaii – pensiamo al fenomeno Hello Kitty – non devono compromettere il contenuto critico del suo messaggio di fondo.
Per quanto, se si vuole maturare, sia anche giusto (se non necessario) sottrarsi alle bizzarrie più recondite ed eminentemente ridicole del proprio animo, a volte non si può fare a meno di cedere al loro richiamo. Forse è proprio per il binarismo espressivo con cui l’anime si approccia ai linguaggi (e ai codici) della cultura kawaii che la serie riesce a dialogare con i suoi pubblici di riferimento, attratti non solo dai modelli in cui si riconoscono, ma anche dai rischi di identificazione superficiale cui vengono tenuti a distanza. Perché Bocchi, alla pari di chi guarda, è libera di metabolizzare la propria parabola di formazione partendo dalle sue stesse fragilità adolescenziali. Senza dimenticare, nel profondo, di essere comunque stravagante. E anche un po’ kawaii.
Riferimenti bibliografici
M. Ghilardi, Filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo, Mimesis Edizioni, Milano 2010.
A. Gomarasca, a cura di, La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, Einaudi, Torino 2001.
S. Kinsella, Cuties in Japan, in L. Skov. e B. Moeran, a cura di, Women, Media, and Consumption in Japan, University of Hawaii Press, Hawaii 1995.
O. Möller, Dietro. «Shōjo manga» e identità sessuale, in G. Spagnoletti e D. Tomasi, a cura di, Il cinema giapponese oggi. Innovazione e tradizione, Lindau, Pesaro 2001.
M. Pellitteri, Kawaii Aesthetics from Japan to Europe: Theory of the Japanese “Cute” and Transcultural Adoption of Its Styles in Italian and French Comics Production and Commodified Culture Goods, in M.H. Pèrez, a cura di, Japanese Media Cultures in Japan and Abroad: Transnational Consumption of Manga, Anime, and Media-Mixes, MDPI, Svizzera 2019.
Bocchi The Rock!. Regia: Keiichirō Saitō; adattamento: Aki Hamaji (rivista Manga Time Kirara Max); musiche: Tomoki Kikuya; produzione: CloverWorks; distribuzione: Crunchyroll; origine: Giappone; anno: 2022.