Per ogni bibliofilo, qualsiasi libro merita rispetto. Non importa se si tratti di un’ennesima biografia scritta ad arte da un fantasma, di un romanzo da-non-rileggere-mai-più oppure da consumare fino a farne staccare la copertina. Ogni libro custodisce una memoria umana che, come tale, va preservata affinché non si disperda tra l’oblio dei giorni e la cesura del tempo: è questa la ragione per la quale conserviamo i libri con la cura che si riserva soltanto a quelle cose che entrano a far parte di noi, riuscendo a superare il confine materiale al quale sono ancorate e a diventare, al contempo, uno strumento in grado di parlarci, e anche di redarguirci. Il secco suono di strappo della pagina che viene sfogliata è sempre intenso e doloroso; il giallo che tinge i caratteri sporcati dal caffè è un dito puntato perennemente contro la nostra disattenzione; la copertina di quel libro acquistato mesi o anni fa sembra risplendere sempre più delle altre. Leggiamo perché siamo anche noi cose del mondo e perché soltanto leggendo entriamo a far parte di un mondo (Moretti 1994).
Questo legame carnale che lega i libri all’essere umano è al centro di Biblioteche in fiamme (Einaudi) di Roberto Cattani, un volume che riesce ad armonizzare una più generale descrizione delle pratiche legate alla conservazione dei libri con una serie di vicende particolari concernenti luoghi, persone ed eventi variamente connessi alla storia delle biblioteche. La proposta di Cattani si configura, quindi, come un’ermeneutica il cui obiettivo non è quello di costruire un quadro prettamente cronologico, storico o geografico, bensì antropologico. Sin dalle prime pagine, ciò che emerge è lo sguardo di una persona che ha sviluppato un rapporto «passionale» (Cattani 2021, p. 3) con i libri. Si passa così dall’esperienza personale dell’autore alle tavolette di argilla del XVII secolo a.C., rinvenute a Nippur in Iraq; dalla biblioteca di Henry Miller a Big Sur alle vicende della biblioteca di Fez; dal progetto artistico della Framtidsbiblioteket (Biblioteca del Futuro) di Katie Paterson alle città-biblioteca sparse nel mondo.
Queste sono soltanto alcune delle tappe del percorso proposto da Cattani che, per varietà di temi ed eterogeneità di esempi, si avvicina molto al modello di una biblioteca totale, frutto di un accumulo – potenzialmente infinito – di libri e di esperienze. Per certi aspetti, la lettura di Biblioteche in fiamme rimanda a quella sensazione che avremmo potuto provare nel 1926, entrando nella biblioteca di Warburg ad Amburgo (ivi, pp. 142-146). In questo luogo circolare, in cui i libri erano raggruppati in quattro categorie (orientamento, immagine, parola, azione), si passava da una sezione all’altra per ritornare infine al punto iniziale di partenza, con qualcosa in più nella memoria: «La biblioteca di Warburg non è una collezione di libri, è un catalogo di problemi, e di questioni aperte per l’umanità» (ivi, p. 145). Le parole di Ernst Cassirer (successivamente direttore della biblioteca) mettono in luce il potenziale trasformativo che la biblioteca custodisce in virtù del particolare criterio di disposizione studiato da Aby Warburg (e tuttora adottato nell’attuale sede della biblioteca a Londra). In fondo, così come la biblioteca di Warburg si basa su un modello circolare, anche Cattani costruisce uno schema circolare che, attraverso un libro, ci porta a riflettere sulla nostra postura nei confronti dei libri.
Cosa ci spinge ad accumulare libri? Perché la biblioteconomia si preoccupa, tra le altre cose, di selezionare dei criteri che siano universalmente validi nella disposizione dei libri in una biblioteca? Quali aspettative ci legano ai libri e ai luoghi in cui sono conservati? A prescindere da tutti gli aspetti cruciali che riguardano il rapporto tra libro e scrittura, la decisione di custodire una traccia scritta mostra la nostra attitudine al pensiero del dopo. Soltanto il libro ci salva di fronte alla morte ed è per questo che, sin dai tempi più antichi, la distruzione di una biblioteca è sempre stata percepita come un attacco violento al corpo della città e, di conseguenza, al corpo stesso dell’umanità.
Come viene puntualmente indicato da Cattani, testi come Burning Books and Leveling Libraries: Extremist Violence and Cultural Terrorism (2006) di Rebecca Knuth e Livres en feu. Histoire sans fin des bibliotheques (2009) di Lucien X. Polastron provano che «molte biblioteche sono state distrutte o incendiate con intenzione mirata, spesso facendo attenzione a non colpire ciò che si trovava attorno, proprio per rendere evidente il proposito» (ivi, p. 130). La distruzione di intere collezioni di libri (pubbliche o private) assume un rilievo particolare per riflettere su quanto queste azioni abbiano contribuito a rideterminare un intero sistema culturale. Ad esempio, gli attentati incendiari alla Vijećnica di Sarajevo (peraltro promossi dall’accademico Nikola Koljević), avevano l’obiettivo di cancellare qualsiasi traccia che mostrasse «come e quanto le quattro culture (slava/ortodossa, turca/islamica, austro-ungarica/cattolica ed ebraica) avessero per secoli non solo convissuto armoniosamente, ma anche interagito, influenzandosi a vicenda, sul piano intellettuale, artistico e religioso» (ivi, p. 137). Seguendo una strategia simile, nel III secolo a.C., l’imperatore cinese Shi Huang Ti «fece distruggere tutti i registri delle epoche precedenti, tutta la letteratura, tutta la filosofia, tutta la storia, tutti i documenti pubblici» e, per cancellare ogni possibile testimonianza, «fece seppellire vivi tutti gli intellettuali e i burocrati che rappresentavano il tempo prima di lui e del suo regno» (ivi, p. 81). Tuttavia, le biblioteche non sono state soltanto bersagli di distruzione ma anche presidi di resistenza: è questo il caso dell’archivio di Alfred Wiener, i cui documenti furono utilizzati come prove nel corso del processo di Norimberga, e della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, «specializzata nel movimento anarchico dalle origini fino ai giorni nostri, nella documentazione dei movimenti operai e sindacali, nella storia dell’antifascismo e della resistenza al nazismo, nei movimenti studenteschi, nelle insurrezioni socialiste […] e nelle rivolte giovanili dal 1968 in poi» (ivi, p. 175).
Sebbene questi ultimi due casi testimonino il ruolo irrinunciabile delle biblioteche per la tutela della memoria storica, Cattani invita a riflettere anche su un altro aspetto legato alla pratica di conservazione dei libri, o meglio, al «principio di necessaria casualità» che determina l’inclusione dei volumi nelle biblioteche o la loro esclusione. Ad esempio, esistono libri che non potremo mai leggere perché sono stati distrutti, mentre possiamo consultare quei libri che sono stati riposti per secoli in aree meno accessibili della biblioteca (come la sezione dell’Enfer della Bibiothèque nationale de France oppure dell’ormai “sciolto” Secretum della British Library): c’è una differenza sostanziale tra un gesto che conserva per non distruggere e un gesto che distrugge per non conservare. Anzi, proprio perché i libri descrivono il nostro modo di stare al mondo in quanto corpi, il compito delle biblioteche è quello di resistere al senso di morte che è connaturato all’essere umano.
Come Bohumil Hrabal racconta nel romanzo Una solitudine troppo rumorosa (1965), il libro è esso stesso un corpo e il legame tra il nostro corpo e questo oggetto-corpo è talmente forte che il contrappasso pagato dal protagonista Haňťa – un impiegato che per trentacinque anni ha smembrato tutto ciò che era fatto di carta (libri, riviste, stampe, rifiuti insanguinati dell’industria della carne) in un magazzino deputato allo stoccaggio dei rifiuti – è proprio il distacco dal mondo, la sua stessa solitudine. Un mondo senza libri è impossibile da pensare perché sarebbe come pensare un mondo in cui niente potrebbe sopravvivere alla determinazione della vita umana: sono le tracce tramandate dai libri a garantire la continuità sia della presenza dell’uomo nel mondo, sia del mondo in quanto sistema culturale complesso. Del resto, anche il gesto di Haňťa – che, in quanto essere umano, è portatore anche di distruzione – risponde a un rituale di disposizione estetica che tradisce il senso di una ricostruzione: in alcuni blocchi destinati al macero, l’uomo inserisce libri che rimangono aperti per sempre (come la Metafisica dei costumi di Kant o Ecce Homo di Nietzsche), conservandone altri in vista della cerimonia di distruzione finale che ha progettato con l’obiettivo di sentirsi lui stesso morire insieme ai suoi libri, forse, per sopravvivere.
Chissà se anche i custodi della geniza della sinagoga di Fustat, riuscivano, come Haňťa, a «guardare il mondo dal lato opposto degli accadimenti e delle cose umane» (Hrabal 1968, p. 14), in quel momento in cui gettavano tutte le “cose di carta” nel buco che le avrebbe sottratte all’incuria degli uomini del tempo per riconsegnarle intatte – e soltanto secoli dopo – ad altri uomini. I documenti di questa biblioteca «involontaria» della geniza rappresentano «una “capsula del tempo”, o un “messaggio nella bottiglia” giunto fino a noi» (Cattani 2021, p. 78), a testimonianza del fatto che i libri trovano quasi sempre uno stratagemma per sopravvivere alla distruzione dei corpi.
Riferimenti bibliografici
R. Cattani, Biblioteche in fiamme, Einaudi, Torino 2021.
B. Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa, Einaudi, Torino 1968.
F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Einaudi, Torino 2003.
Roberto Cattani, Biblioteche in fiamme, Einaudi, Torino 2021.