Innanzitutto ci sono quelle zone peritestuali. L’episodio 4 di Baby Reindeer inizia con una scritta: «The following episode contains depictions of sexual violence which some viewers may find troubling». E finisce con un’altra scritta: «If you or someone you know has experienced sexual violence please visit www.wannatalkaboutit.com to find more information and crisis resources». È l’unico episodio della serie che si apre e chiude in questo modo (l’episodio 7 presenterà solo la seconda scritta nel finale; l’episodio 3, che contiene violenze verbali e fisiche irriferibili ai danni di una ragazza transgender, nulla). È l’unico episodio che dura più di quaranta minuti. Ed è l’unico episodio in cui il tono da comedy viene sospeso dall’inizio alla fine.
L’episodio evidentemente è da prendere con le pinze. Infatti è quello in cui allo spettatore viene chiesto di precisare il proprio attaccamento emotivo al protagonista. Fino a quel momento abbiamo assistito a un caso di psico-passività maschile da manuale. I primi tre episodi presentano Donny, un aspirante comedian, nel suo bisogno di amore e comprensione, bisogno che lo spinge nelle braccia di una donna manifestamente pericolosa. Sul fatto che Martha lo sia non c’è dubbio fin dall’inizio. La scelta di focalizzazione è vincolante: la serie non utilizza la passione per l’auto-sabotaggio di Donny al fine di stabilire uno scarto cognitivo tra lo spettatore e il personaggio. Al contrario, chi guarda è sempre messo dall’istanza narrante nella condizione di essere consapevole del pericolo rappresentato da Martha e del fatto che Donny ne è a sua volta consapevole.
Proprio nell’episodio 4 scopriamo che nel corso degli anni precedenti Donny ha avuto una relazione tossica con Darrien, il produttore di uno show di successo. L’uomo, ultra-cinquantenne, trascina Donny in un rapporto a base di somministrazioni mirate di GHB e LSD e comincia ad abusare di lui arrivando al punto di stuprarlo. Le immagini che hanno reso indispensabile mettere in guardia gli spettatori con la scritta iniziale non sono esplicite ma abbastanza precise da consentire la comprensione esatta dell’accaduto. Dopo aver compreso di essere stato abusato, Donny rompe con la fidanzata e attraversa un periodo di promiscuità sessuale punteggiato da rapporti occasionali con uomini e donne. Vediamo tutto ciò ricostruito in una serie di flashback ancorati soggettivamente alla voce e al ricordo di Donny. Il protagonista dice: “Iniziai a provare una travolgente confusione sessuale […]. Mi mettevo in situazioni del cazzo in cui rischiavo un nuovo stupro nel tentativo di capire il primo. Come se facendomi scopare come una puttana potessi convincermi che il mio corpo mi appartenesse”.
Trovo interessante che si tratti del racconto standard delle conseguenze di moltissimi abusi sessuali. Il dibattito sulla rape culture si basa su racconti come questo. L’elemento fastidioso del discorso di Donny, a mio parere, sta proprio qui. Baby Reindeer fa leva su una verità incontestabile (l’abuso sessuale è un reato ed è una cosa orribile: chi potrebbe negarlo?) per sviluppare una retorica della vittima che va ben al di là di questa stessa verità. Risulterà familiare il fatto non secondario che la vittima ovviamente sia un confuso, traumatizzato e indifeso maschio bianco.
Tutto torna. Se non fosse che quando Donny finalmente denuncia Martha si giustifica così: “Non sopportavo l’ironia di denunciare lei ma non lui. Avevo la percezione che fosse malata e non potesse farci niente, mentre lui era soltanto un pedofilo pericoloso e manipolatore”. Proprio così: a pernicious, manipulative groomer. In effetti si tratta di una descrizione piuttosto indulgente verso il lato macabro di tutta la faccenda. Il grooming descrive metaforicamente e in modo generico gli adescamenti on line ma in modo specifico l’adescamento on line compiuto da pedofili nei confronti di minorenni.
Dove è l’adescamento on line in Baby Reindeer? E quello pedofilo? Tramite questi termini Donny – con il supporto della serie che gli cede affrettatamente il monopolio della parola – fa due cose. La prima: conforma il racconto della violenza subita al modello usato nella nostra società per descrivere il più abominevole dei rapporti sessuali, quello tra un orco pedofilo e un bambino innocente (ancora una volta chiediamoci: chi avrebbe il coraggio di negare una simile ovvietà?). In sopraggiunta, l’insensatezza del richiamo all’adescamento on line attiva la sensazione di un pericolo sempre imminente, pronto a intrufolarsi tramite la rete nelle nostre case, nelle camerette dei nostri figli indifesi. La seconda: assume una descrizione di sé (in altri punti contraddetta) come un cerbiatto dagli occhioni innocenti vittima del Male, come un essere debole e inerme, proprio come un baby reindeer, il soprannome che gli ha dato Martha. Insomma, siamo di fronte a una grandiosa coreografia vittimaria, abbastanza ricattatoria da far apparire un po’ cinico chi volesse ricordare cose che invece potrebbero essere ricordate. Cose come le tre seguenti.
1) Come insegna Eve Kosofsky Sedgwick, se è vero che dobbiamo diffidare dei racconti di volontà trionfante (perché la volontà è sempre abitata dalla costrizione), analogamente dovremmo guardare con sospetto i racconti di costrizione assoluta (perché a volte preferiamo raccontarci che siamo stati costretti a fare certe cose ma sappiamo benissimo che avremmo potuto non farle). Un’obiezione sensata potrebbe essere che tutto ciò la serie lo sa e lo mette in bocca al protagonista nella confessione pubblica dell’episodio 6.
2) Già, appunto, la confessione. Credo che qui si trovi il motivo del successo di Baby Reindeer. In questa serie le poche cose buone che capitano al protagonista avvengono perché ha confessato qualcosa. Donny Dunn/Richard Gadd è una bestia da soma confessionale. Confessa le verità più “indicibili” almeno tre volte: a noi spettatori, con un flashback, nell’episodio 4; in pubblico, durante il monologo dell’episodio 6; infine, poco dopo, in un altro monologo davanti ai genitori (per inciso, il bisogno della narrazione di mantenere sempre attivo il dispositivo confessionale è così potente da essere indifferente alla carenza di realismo generata da una situazione in cui due genitori non sanno perché il loro unico figlio ha avuto un improvviso successo). L’intera narrazione lievita su una continua erotizzazione della confessione, la cui efficacia – per me sbalorditiva – viene confermata dai commenti online dei numerosi spettatori entusiasti di fronte alla capacità di Donny Dunn/Richard Gadd di pronunciare verità così scomode e brucianti su se stesso: cosa può esserci di più profondamente umano e virile di un uomo che ha il coraggio di confessare davanti a tutti proprio quelle cose?
Alla domanda è lecito rispondere con altre domande. E se invece la confessione fosse – almeno da Sant’Agostino in poi (passando per Rousseau riletto da Paul de Man) – lo strumento retorico con cui, oltre a raccontare fatti più o meno difficili da raccontare, si cercano giustificazioni per questi stessi fatti trasformando il racconto confessionale in un racconto apologetico? E se invece la confessione non fosse dettata dall’urgenza di mettere a nudo se stessi ma dal desiderio di ottenere una scena pubblica per esibire (erotizzandola) la propria vergogna? E se l’ipertrofia confessionale non fosse la prova dell’autenticità esistenziale del soggetto che confessa ma una manifestazione di quella sua maschera chiamata narcisismo? E se la confessione fosse lì proprio per gratificare noi spettatori, consapevoli delle nostre debolezze, a nostra volta fragili e compiaciuti di esserlo, e proprio per questo desiderosi, desiderosissimi, di esibire al prossimo tutta la nostra solidarietà e comprensione?
3) A guardarla meglio, la spiegazione contenuta nella narrazione confessionale di Donny ha qualcosa di incoerente. Come minimo si espone al rischio di un regresso all’infinito: se Donny cede a Martha perché in precedenza ha ceduto a Darrien, perché in prima istanza ha ceduto a Darrien? Basterà retrocedere fino all’infanzia, momento in cui la catena degli abusi si potrà cristallizzare nell’immagine rassicurante (proprio perché da tutti consensualmente condivisa) del bambino come vittima per eccellenza non consenziente di qualsivoglia sopruso? O dovremo retrocedere ulteriormente, immaginandoci un romanzo familiare in cui la “tara” della passività psicosessuale si tramanda di padre in figlio, come pure Baby Reindeer sembra suggerire nel perseguimento del suo allucinatorio piano retorico-vittimizzante? Oppure, come avviene con il monologo dell’episodio 6, dovremo accontentarci di una spiegazione incoerente, di compromesso, in cui pare che l’origine di tutti i problemi sia in parte lo stupratore primordiale dotato del potere di trasformarti per sempre in carta assorbente per il dolore altrui e in parte un atavico odio per se stessi (che era già lì quando arriva lo stupratore ad approfittarne)?
In sintesi, Baby Reindeer mi pare una serie problematica per almeno due motivi. Il primo è che – malgrado l’esibita, encomiabile, buona predisposizione del sub-plot incaricato di raccontare l’amore tra Donny e una ragazza transgender – la serie ci rifila una monumentale mistica dark della passività maschile mobilitata dal suo protagonista/autore/demiurgo per fare i conti… con l’incapacità di fare i conti con lo shock di una penetrazione subita in modo non consensuale. Il secondo è che – malgrado tutte le energie narrative impiegate per star dietro ai furori auto-vittimizzanti di una persona in definitiva semplicemente poco sicura di sé – è una serie pigra (oltre che furba), perché riposa placidamente sullo sfruttamento del sistema confessionale dei media contemporanei in cui “autenticità” è sinonimo di messa in scena/messa a nudo del sé digitale.
Riferimenti bibliografici
P. de Man, Allegorie della lettura, Einaudi, Torino 1997.
E.K. Sedgwick, Tendencies, Duke University Press, Durham 1993.
Baby Reindeer. Ideatore: Richard Gadd; interpreti: Richard Gadd, Jessica Gunning, Nava Mau, Tom Goodman-Hill, Hugh Coles, Danny Kirrane, Shalom Brune-Franklin; produzione: Clerkenwell Films; distribuzione: Netflix; origine: Regno Unito, anno: 2024.