Il nome di Kant è in genere associato al programma di una “svolta copernicana” in filosofia da lui enunciato in modo brillante all’inizio della Critica della ragion pura (1781: il filosofo aveva 57 anni). Un programma radicale secondo cui prima di poter dire qualcosa di sensato sulla natura degli oggetti della conoscenza è necessario mettere in chiaro a che condizioni questi oggetti vengono ricevuti dalla sensibilità ed elaborati dall’intelletto di quel vivente particolare che è l’essere umano. È questa interrogazione preliminare sulle condizioni dell’esperienza (innanzitutto cognitiva, ma non solo cognitiva) a definire l’orientamento essenziale di ciò che Kant concepì come una “filosofia critica”: un modo di pensare, dunque, piuttosto che una dottrina in senso rigoroso.
Nel testo che conclude l’impresa kantiana – la Critica della facoltà di giudizio (1790) – il filosofo arrivò alla conclusione, imprevista, che l’ambito più originario di quel programma di ricerca dovesse coincidere con quello di un’estetica. Ma attenzione: per lui un’estetica è innanzitutto ed essenzialmente una riflessione sulla qualità e le prestazioni della sensibilità e dell’immaginazione del vivente umano. Qualità e prestazioni che si differenziano da quelle di cui sono dotati gli altri viventi per il ruolo decisivo che vi assume un elemento paradossale: l’attitudine a entrare in contatto col mondo-ambiente solo avendone contestualmente preso le distanze. Sia chiaro: questo genere di controllo riflessivo della prassi è riscontrabile anche in molti altri viventi, oggi lo sappiamo per certo, ma nessuno di essi lo ha praticato, come è accaduto all’essere umano, nella forma di una sistematica e inesauribile proliferazione di protocolli culturali.
Sarebbe ancora attuale un programma filosofico che trova compimento in un’indagine sulla qualità e le prestazioni di immaginazione e sensibilità? Provate a sostituire questi due termini con la parola corpo e vi sarete dati la risposta. L’intero e multiforme progetto della embodied cognition, per fare un solo esempio, è genuinamente kantiano, benché i suoi seguaci dichiarino di averne individuato le radici filosofiche nella fenomenologia e nel pragmatismo. Come si spiega questo mancato riconoscimento? Si spiega con un persistente fraintendimento. La filosofia critica, si dice, è una filosofia “correlazionista”: nulla essa ci dice sulla natura delle cose limitandosi a indagare il modo in cui le cose vengono percepite e manipolate cognitivamente da noi umani. Cosicché, in definitiva, questa filosofia si ridurrebbe a una forma più o meno dissimulata di soggettivismo antropocentrico.
È ovvio che quella kantiana è una filosofia “correlazionista” (la parola ha una connotazione negativa presso le moderne ontologie – speculative o “object oriented”). Ma lo è in quanto la nostra conoscenza, finita e limitata, dipende da qualcosa che ci deve essere dato e dal modo particolare in cui lo riceviamo e lo elaboriamo. Questo nulla toglie, tuttavia, all’oggettività del conoscere e alla necessaria adeguatezza empirica delle teorie. Lo stesso si deve dire dello strumento principe del conoscere umano: il linguaggio. I significati linguistici non denotano le cose, denotano il modo in cui le cose diventano oggetto di manipolazione pratica e di riferimento concettuale. Ma il linguaggio dispone di sistemi di controllo molto affidabili per chiarire e riqualificare, dovunque sia necessario, il suo rapporto con il mondo-ambiente. E a consentirglielo è proprio il suo modo di attualizzare in forma di meta-linguaggio il raddoppiamento riflessivo tipico della nostra sensibilità e della nostra immaginazione.
Il motivo del fraintendimento, in realtà, consiste in ultima analisi nel sovrapporre antropocentrismo e antropomorfismo: una confusione grossolana e facilmente smontabile. Ecco un’efficace argomentazione di Lambros Malafouris, autore di un testo influente di archeologia cognitiva: se assumere una posizione antropocentrica, scrive, «significa percepire gli umani al centro della realtà», assumere una prospettiva antropomorfa, per contro, «consiste nel percepire la realtà in termini umani». E aggiunge che quest’ultima non è una scelta ma «una necessità biologica» essendo impossibile anche solo immaginare che cosa significherebbe, per noi umani, vivere e pensare in assenza dell’apparato simbolico costituente su cui poggia la nostra percezione del mondo, intessuta di schemi senso-motori riferiti al nostro specifico embodiment cognitivo e alla nostra prassi.
Ho illustrato lo statuto epistemologico dell’argomento antropomorfo con le parole di un rappresentante di punta delle Humanities contemporanee per evidenziare il fatto che la filosofia critica si presta ad attivare in modo motivato un dialogo non generico con alcune direttrici di ricerca delle attuali scienze sperimentali come, ad esempio, la paleoantropologia e l’archeologia cognitiva, le neuroscienze e la psicologia sperimentale. Certo, ciò comporta una certa torsione antropologica della “svolta copernicana”, ma la produttività di questo sbilanciamento è notevole. Che cosa intendo con produttività? Almeno due cose: a. che la filosofia critica mostra di poter cooperare con i protocolli delle scienze sperimentali moderne in modo pertinente, ben definito e vantaggioso; b. che si dimostra in grado di sollecitare queste scienze nel mettere a fuoco precisi oggetti di indagine e nel porre loro domande molto mirate. Ecco due esempi di questa produttività.
Il primo riguarda l’interpretazione del famoso, e così spesso frainteso, “a priori”, una delle keywords della “svolta copernicana”. Secondo un’inadeguata lectio facilis “a priori” varrebbe quanto “innato”. Noi umani verremmo al mondo dotati di un corredo di forme cognitive che ci limiteremmo poi ad applicare, in modo più o meno automatico, alla multiformità dell’esperienza empirica. La lectio difficilis, che è anche quella autentica, suona in tutt’altro modo, non solo sotto il profilo delle formulazioni esplicite ma anche sotto il profilo di un rilevante sviluppo interno del pensiero kantiano, che non è sfuggito agli studiosi più attenti (due nomi per tutti: Emilio Garroni e Catherine Malabou). Quanto alle definizioni, già nella Ragion Pura, e proprio in un paragrafo – il 27 – di carattere conclusivo (l’ultimo della sezione in cui la prima Critica si avvale di una suddivisione in paragrafi), Kant parla senza mezzi termini di un «sistema dell’epigenesi della ragion pura». Vale a dire di un sistema “sensibile” al proprio sviluppo temporale, nel senso che le forme a priori dell’esperienza si limitano a istruire le modificazioni applicative cui andranno incontro ma non a determinarne la configurazione e le modalità.
Quanto all’altro aspetto, quello di un’evoluzione del pensiero kantiano, l’intera terza Critica ne è una eccezionale testimonianza. A cominciare dal fatto che il concetto stesso di “modificazioni” delle forme a priori della ragion pura (cioè della loro “epigenesi”) viene esplicitamente discusso in un passaggio saliente nel quale Kant descrive lo svolgersi effettivo dell’esperienza come un’interazione determinante e paritaria tra le strutture cognitive e la grande molteplicità degli oggetti che il vivente umano mostra, tipicamente, di voler comprendere proprio nella loro diversità.
Il secondo esempio riguarda un tema che Kant non affronta esplicitamente, ma include in un quadro teorico generale molto favorevole a uno scambio fecondo con una delle questioni più intricate delle Humanities attente alle acquisizioni delle scienze sperimentali. Mi riferisco all’origine e alla storia evolutiva (di nuovo: all’epigenesi) del linguaggio articolato, la tecnologia espressiva che più incisivamente di qualsiasi altra ha caratterizzato le forme di vita della nostra specie. Quali condizioni evolutive dovrebbero essere soddisfatte per l’emergenza di un linguaggio articolato? Kant ci aiuta a evidenziarne almeno tre. La prima è che il titolare di una tale tecnologia espressiva abbia già maturato una competenza simbolica sufficientemente ampia. Una competenza incarnata e operativa, si intende, come quella che in un passo della sua tarda Antropologia il filosofo riferisce, metonimicamente, alla finezza percettiva e alla multifunzionalità delle nostre mani, veri e propri organi ideativi ed esecutivi di un «vivente dotato di ragione» (come lo chiama).
La seconda è che l’immaginazione coordinata con il lavoro di quelle mani sia in grado di elaborarne i numerosi input contestuali costruendo mappe cognitive al tempo stesso sufficientemente stabili e sufficientemente flessibili, cioè riorganizzabili in rapporto ai feedback via via ricevuti dal contesto operativo in gioco. Kant – che lo definì «schematismo dell’immaginazione» – elaborò questo tema cruciale in tutte e tre le sue Critiche ponendo l’accento in modo sempre più qualificante sui suoi aspetti specificamente plastici (o se si vuole, di nuovo, epigenetici).
La terza condizione, strettamente connessa alla precedente, è che nel passaggio della prassi simbolica umana dal gesto alla parola la plasticità dell’immaginazione abbia saputo trarre uno specifico vantaggio, che Kant individuò nel dispositivo della analogia. In che modo, infatti, si rigenera e si riorganizza la nostra competenza semantica? Ciò accade nel modo più efficace e dispiegato, dice Kant, quando si comparano tra loro le intuizioni (cioè i contenuti sensibili senza i quali i concetti linguistici, anche i più astratti, sarebbero «vuoti») non solo in base a un tratto morfologico comune (come accade nella metafora), ma anche in base a una più generale «regola della riflessione» che si dimostra capace di integrare contenuti intuitivi eterogenei indipendentemente da ogni somiglianza materiale. Non c’è alcuna somiglianza tra una siepe di ligustro e l’infinito, e tuttavia i due possono condividere, mettendola al lavoro, una regola della riflessione il cui oggetto (o meglio: uno dei cui oggetti) è il rapporto tra il limite e l’illimitato.
A ben guardare il ragionamento kantiano si può proiettare in modo significativo sulla differenza che sussiste (per il momento) tra le prestazioni linguistiche delle intelligenze artificiali e quelle caratteristiche degli esseri umani. I sistemi algoritmici, infatti, hanno ricavato la loro competenza semantica esclusivamente dagli immani repertori di testi su cui sono stati addestrati e nel cui ambito si orientano, con fantastica rapidità e grande padronanza generativa, in modo esclusivamente statistico e predittivo. Per contro, essi non si sono mai trovati (al meno fin qui) nella condizione di veder emergere un nuovo campo semantico grazie al trasferimento di una “regola della riflessione” da un’intuizione a un’altra. E non ci si sono mai trovati per il buon motivo che questi sistemi sono (ancora) del tutto sprovvisti di modalità di apprendimento interfacciabili con i contesti extralinguistici (come il parco di casa Leopardi).
Cosicché, pur esperti nel riconoscere e generare metafore, essi sono (ancora) incapaci di estendere analogicamente l’ambito della referenza e cioè di rigenerare effettivamente il linguaggio. Ecco uno spunto schiettamente kantiano che potrebbe definire, a tutti gli effetti, un preciso programma di ricerca interdisciplinare.