Le vostre conversazioni sono velocissime: tempo che apro bocca, e siete andate già oltre”. Si potrebbe partire da queste brevi battute, pronunciate dall’investigatore privato Katsumata (Ryuhei Matsuda) alle sorelle maggiori della sua neo-compagna Takiko (Yu Aoi), per scandagliare tutti i discorsi proposti da Hirokazu Kore-eda nel corso di Asura, e rivelare così le metodologie narrative con cui il regista nipponico porta alla luce le istanze della serie.

Agli occhi del giovane detective, la famiglia in cui sta per approdare si disvela come un universo microcosmico, ermetico, fondato su pratiche, liturgie e sensibilità da cui, in quanto uomo, sembra essere irrimediabilmente escluso, e nel quale difficilmente riuscirà a trovare un vero senso di appartenenza. Le due donne con cui era qui impegnato a conversare, ovvero la “sorella maggiore” Tsunako (Rie Miyazawa) e la secondogenita della famiglia centrale di Asura, cioè Makiko (Machiko Ono) sembrano infatti legate da una complicità esclusiva, quasi atavica, attraverso cui formano ed esprimono le loro stesse soggettività, anche mediante la codificazione – come ci suggerirebbe la frase riportata in partenza – di un sistema linguistico deliberatamente singolare, che vive di un ritmo proprio e che può essere reiterato esclusivamente dalle quattro donne (tra cui figura anche la più giovane Sakiko, interpretata da Suzu Hirose) che compongono il nucleo famigliare delle “Asura”. Al punto che gli uomini, compresi coloro che denotano un legame di sangue con il quartetto di protagoniste, non riescono ad allinearsi, in termini sia emotivi che esistenziali, alle sensibilità e agli universi interiori di questi personaggi, rimanendo perciò esclusi da un mondo al quale si ha il “diritto di accedere” solamente se ci si può fregiare di quella complicità primordiale che il solo legame sororale può restituire al singolo individuo.

Ed è da questo particolare fenomeno che Kore-eda parte per codificare tutte le riflessioni che attraverseranno le immagini e gli scontri/incontri verbali su cui si fonda Asura. Adattata da una popolare serie andata in onda sul servizio pubblico nipponico (cioè l’NHK) alla fine degli anni settanta, poi trasposta anche in un lungometraggio diretto da Yoshimitsu Morita nel 2003, la nuova opera realizzata dal regista giapponese per Netflix presenta, sin dall’incipit, una narrazione tarata sulle liturgie del sentimento sororale, capace di creare all’interno del più ampio sistema di relazioni famigliari, un universo autonomo, fatto di segni, oscillazioni emozionali e linguaggi propriamente esclusivi, emblematici – verrebbe da dire – unicamente delle soggettività delle quattro sorelle di cui si andrà a raccontare la storia e le crisi quotidiane. E nel perseguire tale obiettivo, Kore-eda traccia delle micro-barriere invisibili tra il quartetto di protagoniste e tutti coloro (specialmente se di genere maschile) che non rientrano in questo particolare quadrilatero. Proprio perché le donne in questione, in quanto sorelle, non potranno mai comunicare con individui “esterni” a tale cornice secondo le stesse metodologie con cui si approcciano, rivelando le loro interiorità, l’una con l’altra.

A primo impatto, ciò che restituisce radicalità alle riflessioni qui avanzate dal cineasta è indubbiamente la naturalezza con cui il maestro nipponico rilegge il rapporto sororale – e il reticolo di connessioni che legano le protagoniste agli altri personaggi del racconto – attraverso i codici culturali su cui si fonda la società giapponese. Chi ha familiarità con le liturgie comportamentali dei cittadini nipponici, sa bene che il contesto societario del Sol Levante, specialmente negli anni passati (e di fatto la serie è ambientata nel 1979, periodo ricreato anche grazie all’alta referenzialità della pellicola 35mm) si suddivide in micro-categorie o sottogruppi, secondo la nota dialettica dell’uchi/soto (cioè del “dentro” e del “fuori”). Generalmente l’individuo giapponese tende a mantenere dei legami sociali solamente con coloro che rientrano nel suo specifico “gruppo di appartenenza” (ad esempio colleghi di lavoro o familiari, espressione del cosiddetto “uchi”) a cui è difficile accedere dall’esterno. Ma nel momento in cui un fattore “anomalo” – ovvero che non si iscrive, almeno in partenza, in tale cornice, e che proviene perciò da fuori (e quindi dal “soto”) – cerca di approdare nel cuore di questa dimensione, ecco che gli elementi interni al gruppo rischiano di essere destabilizzati. Ed è proprio ciò che accade alle quattro sorelle non appena comprendono che la loro quotidianità rischia di essere rovesciata dall’arrivo, dal mondo esterno (cioè da quello maschile), di una novità tanto imprevista quanto totalizzante: ovvero l’esistenza di un fratellino illegittimo, nato da una relazione extra-coniugale mantenuta a lungo segreta dall’amato padre.

Le vite del quartetto di protagoniste vengono così rivoltate da un evento che assume, sin da subito, una valenza demiurgica e catalizzatrice, proprio perché, in quanto espressione di un mondo maschile, contrasta con i canoni intrinseci alla base della loro sororità. E non è un caso che Kore-eda, dimostrando una comprensione assoluta del nucleo di riflessioni da cui nasce questo racconto, focalizzi immediatamente l’attenzione sulle relazioni conflittuali che Tsunako, Makiko, Takiko e Sakiko attivano con le varie figure maschili della narrazione, tanto da intenderle non solo come contraltari delle loro “soggettività di donne e sorelle” ma anche quali i catalizzatori delle tensioni che da quel momento nasceranno tra le quattro protagoniste: fino a quell’istante immerse in una condizione di equilibrio assoluto e virtuoso, che dovrà almeno in parte essere riconfigurato, essendo stato “contaminato” dalle azioni dissonanti degli uomini.

Ma la complicità che lega i corpi e le sensibilità delle quattro sorelle, da intendere alla stregua di un fil rouge invisibile ma sempre percettibile nelle singole immagini del racconto, è l’elemento (linguistico, narrativo ed estetico) che fonda l’universo drammaturgico ed iconografico della serie. E in quanto tale, non può essere mai veramente disinnescato: perché tutte le riflessioni avanzate dall’autore nei sette episodi di Asura, il corpus di relazioni che fonda la struttura drammatica (e tematica) della storia, muovono le mosse a partire dall’unicità semantica del legame sororale, destinato qui a creare significati che solo le protagoniste riescono veramente a comprendere, grazie anche all’adozione – si pensi alle parole dell’investigatore – di un linguaggio che sembra seguire un andamento ritmico tutto suo: e che nel momento in cui prende vita davanti agli occhi di noi “estranei”, diventa l’unico veicolo di passaggio delle soggettività di queste donne. Capaci di autodeterminarsi in qualità di sorelle (e mai esclusivamente di “mogli”) e di trovare così un senso apparente di pacificazione solo nell’istante in cui si rispecchiano, con le loro turbe o aspirazioni recondite, negli occhi delle loro omologhe.

È chiaro, poi, che questa valenza quasi metaforica di cui si connota la complicità sororale nel corso di Asura, non poteva risultare così radicale e deflagrante se alla base non ci fosse stata una capacità, ormai storicamente collaudata, da parte di Kore-eda di infondere un respiro di autenticità alle relazioni interfamiliari tra donne. Tanto che la serie, sin dalle primissime inquadrature, sembra urlare la propria appartenenza ai mondi narrativi codificati dal cineasta soprattutto a partire da Nessuno lo sa (2004), e che nel caso in questione trova una corrispondenza naturale con gli intrecci di Little Sister (suo proseguimento ideale) e con la precedente serie intitolata Makanai (di cui è una sorta di contraltare).

Rispetto al film del 2015, dove l’approdo improvviso della giovane sorellastra Suzu all’interno della famiglia Kōda ha portato il cineasta a raccontare la fondazione di un rapporto sororale, in Asura al contrario non si sente più il bisogno di ripercorrere la genesi di tale legame: qui la complicità tra le protagoniste è già codificata da tempo immemore, e perciò la narrazione segue coerentemente dei paradigmi differenti, percepibili tanto negli scontri verbali tra i personaggi, quanto nelle riappacificazioni che immediatamente ne seguono, emblematiche di un rapporto quadrilaterale dalla natura quasi primordiale. E dal quale ogni elemento esterno, che sia espressione di maschilità o di canoni comunque opposti all’idea di sorellanza che Kore-eda ci propone lungo il racconto, viene opportunamente estromesso e rigettato.

Ma per quanto, solo due anni fa con Makanai, il regista avesse legittimato come “autentico” il rapporto tra sorelle acquisite, smarcando la loro complicità dal dogma della consanguineità, è altrettanto vero che la connessione emotiva ravvisabile negli scambi dialogici tra le quattro protagoniste di Asura sembra qui venire alla luce in maniera così naturale e sincera non solo perché testimonia un universo esclusivamente sororale, ma anche per come entra in relazione con gli intrecci interfamiliari delle precedenti opere di Kore-eda, fondati – al di là delle differenze del caso – su un principio analogo: l’abbattimento delle barriere esistenziali tra gli attori di uno scambio relazionale, e la successiva contiguità emotiva che i protagonisti (ri)trovano in coloro che riconoscono quali “omologhi”, proprio perché si iscrivono nella propria personale, ed indissolubile, sfera di appartenenza.

Asura. Ideatore, regia, montaggio: Hirokazu Kore-eda; sceneggiatura: Hirokazu Kore-eda, Mukōda Kuniko; fotografia: Takimoto Mikiya; interpreti: Rie Miyazawa, Machiko Ono, Yū Aoi, Suzu Hirose; produzione: Bunbuku; distribuzione: Netflix; origine: Giappone, anno: 2025.

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