Per molti di coloro che vivono al di là del Canale il Regno Unito rimane una realtà enigmatica, anche se per molti versi fascinosa. I britannici, e gli inglesi in particolare, sono percepiti, e non solo dopo la Brexit, come degli “europei riluttanti”, più in sintonia con il resto della diaspora anglosassone nei Nuovi mondi − dall’America all’Oceania − che con i loro vicini europei con i quali condividono secoli di storia turbolenta. Del resto la Gran Bretagna ha costruito nell’ultimo mezzo millennio la sua identità in larga misura in contrapposizione con quella degli altri paesi europei, a cominciare dalla Francia.
La relazione ambivalente della Gran Bretagna con la modernità è un aspetto centrale del suo apparente eccezionalismo. Sulla primogenitura britannica di molti aspetti sostanziali del mondo moderno − l’industrializzazione, l’urbanizzazione, le istituzioni liberali nate da una rivoluzione – ci sono pochi dubbi, ma nonostante, o forse a causa, di questa precocità la Gran Bretagna è considerata, e si considera, come un paese fortemente tradizionalista. O forse meglio come un paese in bilico fra arcaismo e post-modernità, e refrattario al razionalismo universalista che i continentali tendono a considerare l’elemento portante di quella che consideriamo la “modernità classica”.
Questa ambivalenza, trova forse la sua espressione più emblematica nella monarchia, e nei suoi rituali − incoronazioni, matrimoni, funerali, discorsi della Corona, cambi della guardia etc. − che vengono avvertiti come delle realtà immutabili e immemoriali, espressioni seducenti, proprio per il loro anacronismo, di quella che ci appare un naturale attaccamento dei britannici alle loro tradizioni e istituzioni ancestrali. Nei reportages giornalistici di questi giorni abbiamo sentito spesso espressioni come “cerimoniale senza tempo”, “tradizioni secolari”, “riti immemoriali”, con sfoggio di uniformi ottocentesche e costumi tardo-rinascimentali. La devozione per l’istituzione monarchica sembra una costante astorica della vita pubblica britannica o forse, meglio, inglese. Eppure le cose non stanno proprio così e l’evoluzione del sentimento verso la monarchia e i sovrani che di volta in volta l’hanno incarnata e verso le cerimonie reali è anzi diventata uno lucus classicus degli studi sulle costanti reinvenzioni e reinterpretazioni delle tradizioni.
Quasi esattamente due secoli fa, nel 1830, in occasione della morte di Giorgio IV, nel Times, non certo un foglio giacobino, si potevano leggere queste parole: «Mai individuo fu meno rimpianto dai suoi simili del re appena deceduto . Quale occhio ha sparso una lacrima in suo memoria? Quale cuore ha sentito un solo spasimo di dolore che non fosse interessato?». Anche il presunto naturale talento degli inglesi per le fastose cerimonie di stato onuste di simbolismi storici è un’evoluzione relativamente recente. Poco dopo la metà del XIX secolo, Robert Cecil, marchese di Salisbury si rammaricava della goffaggine cerimoniale degli inglesi:
Vi sono nazioni che hanno il dono del cerimoniale… Ognuno occupa d’istinto il posto giusto, abbandonandosi senza sforzo allo spirito del piccolo dramma che sta recitando, e reprimendo d’impulso ogni segno esteriore di costrizione, e di distrazione. In genere questa propensione è limitata ai popoli dei climi meridionali, quelli di ascendenza non teutonica. In Inghilterra si dà la situazione esattamente inversa. Possiamo permetterci di essere più splendidi di tante nazioni, eppure su tutte le nostre cerimonie più solenni aleggia una sorta di incantesimo maligno, che in ogni occasione inserisce un qualche elemento di ridicolo… C’è sempre qualcosa che si rompe, c’è sempre qualcuno che riesce ad evitare di fare la propria parte, c’è sempre qualcosa che interviene a rovinare tutto.
L’«incantesimo maligno» del quale parla Salisbury cominciò a dissolversi solo durante l’ultima parte del regno di Vittoria e gli inglesi hanno finito per credere loro stessi alla «magia laica della monarchia» e hanno finito per convincersi (e poi convincere tutti gli altri) di avere una propensione naturale per le cerimonie ad essa connesse. Il lungo regno di Elisabetta II, che ebbe inizio con la fastosa cerimonia d’incoronazione, per la prima volta teletrasmessa, costituisce la fase matura e forse culminante di questa infatuazione.
Come si spiega questa tardiva conversione, in un certo senso paradossale, dato che la rinascita della devozione per un’istituzione per sua natura autocratica ha coinciso con il processo di sia pur prudente democratizzazione della società e delle istituzioni britanniche? Walter Bagehot pensava che in realtà non ci fosse alcuna contraddizione: «Quanto più diverremo democratici, tanto più impareremo ad apprezzare la pompa e l’ostentazione, da sempre diletto del volgo». In una società lacerata da forti conflitti sociali, la monarchia, la sua mistica e i suoi riti, avevano del resto da offrire una «potenza integrativa» in senso conservatore molto utile. Come disse l’arcivescovo di Canterbury dopo le grandiose cerimonie per il giubileo d’oro della regina Vittoria, «tutti ebbero l’impressione che il movimento socialista avesse avuto una battuta d’arresto». I cerimoniali monarchici, sempre più grandiosi e attentamente organizzati costituivano anche un aspetto della competizione fra grandi potenze, in una fase storica nella quale la Gran Bretagna non poteva più vantare il predominio incontrastato in Europa e nel mondo, dei decenni precedenti.
In seguito, nel corso del Novecento la monarchia e i suoi cerimoniali hanno conservato, e forse addirittura accresciuto, la loro funzione simbolica, come elemento di stabilità, di continuità in un mondo in rapidissima, drammatica trasformazione nel quale, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, il Regno Unito si trovò declassato al rango di potenza minore. È Elisabetta stessa, al momento di salire al trono, ad esprimere ad un tempo l’incertezza del presente e la volontà di non arrendersi al declino: «Sono certa che questa, la mia incoronazione, non sia il simbolo di un potere e di uno splendore ormai scomparsi, bensì la dichiarazione delle speranze che riponiamo nel futuro». Autentiche o meno che fossero, queste speranze, almeno sul piano della politica di potenza, non durarono molto. Nel 1956 l’umiliazione di Suez mise fine a ogni velleità residua di grandezza imperiale.
A quella che a questo punto era diventata la Royal family venne quindi affidato un nuovo compito, quello di accompagnare, le trasformazioni sociali e culturali degli anni del boom economico senza contrapporsi ad esse ma offrendone un’interpretazione moderata e rassicurante. Nel documentario The Royal Family del 1969, i Windsor, non più una dinastia ma, appunto una family, si presentavano in un certo senso come la prima famiglia middle class del regno, impegnata nel rito del barbecue domenicale a Balmoral. Questa iconografia minore si affiancava, senza peraltro sostituirla, alla maestosità delle grandi cerimonie, peraltro rare, dopo l’incoronazione del 1952. Il matrimonio di Carlo e Diana del 1981, rappresentò il momento di sintesi di questi due modalità di presentarsi ai sudditi da parte della monarchia. Un matrimonio regale certamente, ma non dinastico. L’esito di quella che veniva offerta al pubblico come una storia d’amore quasi borghese.
Salvo qualche intoppo questa rilettura in chiava famigliare e domestica del ruolo della monarchia funzionò abbastanza bene almeno fino al 1992, l’annus horribilis dei divorzi di Anna e Andrew e della separazione di Carlo e Diana. Le vicende matrimoniali misero infatti in evidenza il punto debole della strategia di rilegittimazione della monarchia che si poneva come un modello non solo di dedizione al bene pubblico ma anche come un modello di condotta privata, al quale la nazione avrebbe dovuto ispirarsi. Questo punto, come ha scritto Simon Schama, è «la tensione derivante dall’essere simultaneamente un’istituzione cerimoniale e famigliare», una dinastia regnante e una family come le altre.
Come si sa, non tutti i protagonisti e i comprimari sono stati all’altezza del compito e delle aspettative. E forse le cose non potevano andare altrimenti dato che il modello famigliare, in sostanza anni cinquanta, navigava esso stesso in cattive acque. Ogni famiglia infelice avrebbe diritto di essere infelice a modo suo, ma nel caso della Royal family la sovrapposizione dei piani e la sovraesposizione hanno fatto sì che le infelicità private avessero ripercussioni politiche e istituzionali. La scomparsa di Elisabetta, il cui prestigio personale aveva limitato l’impatto negativo delle traversie famigliari sul prestigio dell’istituzione monarchica in quanto tale segna con ogni probabilità la fine di questo modello di “monarchia famigliare”. Il nuovo re beneficerà presumibilmente di una luna di miele con l’opinione pubblica ma un ripensamento profondo del ruolo della monarchia, nella direzione di un ridimensionamento della sua esposizione simbolica e mediatica e di una stretta sobrietà istituzionale, sembra inevitabile.