Il binomio vittima-carnefice, se invertito, facilmente conduce ad una storia. In effetti forse la legge è ancora più universale, e risale all’essenza della dialettica (la coppia hegeliana del servo e del padrone, per intenderci). Se due ruoli che si definiscono reciprocamente vengono invertiti è certo che questo darà vita ad un racconto, più semplicemente è naturale che qualcosa avvenga.

Oggi, di fronte all’ultimo film di Leonardo Di Costanzo, Ariaferma, ci rendiamo conto che il regista non ha mai fatto altro che lavorare su questo binomio e sulle possibilità sprigionate dalla sua inversione. A partire da L’intervallo, in cui una ragazza viene chiusa in un palazzo abbandonato assieme ad un coetaneo pagato per far sì che non scappi fin quando arriva il capo del clan del quartiere a punirla per un tradimento; passando per I ponti di Sarajevo, film collettivo in cui il regista decide di dedicare il suo episodio alla diserzione di un soldato che si rifiuta di andare al macello in trincea durante un attacco e poi per la disperazione si toglie la vita; arrivando a L’intrusa, in cui la direttrice di un centro ricreativo per bambini si trova a condividere lo spazio con la moglie di un criminale finito in carcere, sentendosi responsabile dei movimenti della donna e di sua figlia.

In tutti e tre questi casi progressivamente la distanza tra i due poli si assottiglia e le “vittime” (o in qualche modo “sottoposte” al controllo altrui) si ribellano alla condizione di potere cui sono assoggettate e diventano parte dominante dei rapporti, attraendo la parte inversa verso di sé fino a capovolgere lo status quo. Se ci pensiamo bene, qualcosa del genere succede anche in uno dei documentari più riusciti dell’autore, Cadenza d’inganno, in cui il ragazzino protagonista ad un certo punto decide che non vuole più essere filmato e provoca l’interruzione dei lavori. Dopo anni, quando si sposa, richiama Di Costanzo a riprenderlo, diventando a tutti gli effetti regista della propria storia.

In Ariaferma, primo film del regista ad allontanarsi radicalmente dal “cinema del reale” affidandosi ad una sceneggiatura costruita a tavolino e a volti noti come Toni Servillo e Silvio Orlando, questo tema si ripete e viene portato a piena e definitiva maturità.

Siamo nel vecchio carcere di Mortana, luogo immaginario in mezzo alle montagne. Il carcere deve chiudere (anzi in gran parte la struttura è già chiusa) e i detenuti smistati in altre carceri per terminare ognuno la propria pena. Dodici di essi vengono però respinti da un carcere all’ultimo momento, e la direttrice di Mortana, non sapendo dove farli stare, chiede all’ispettore più anziano (Gaetano Gargiulo, Servillo) e a un piccolissimo manipolo di personale militare di rimanere di guardia ancora qualche giorno in attesa che qualche altro carcere possa accoglierli. Si viene a creare quello che giuridicamente viene definito uno “stato d’eccezione”: da una parte i carcerieri, angosciati dal dover gestire da soli dodici detenuti (tra cui uno psicolabile); dall’altra i carcerati, che da subito si ribellano all’idea di dover mangiare cibi precotti (anche la cucina ha chiuso) e di non poter ricevere visite dai parenti (non c’è abbastanza personale di guardia). La loro diventa ad un tratto una caccia reciproca: sono entrambi sia cacciatori che anatre, per riprendere la scena iniziale che vede i poliziotti impegnati simbolicamente in una battuta di caccia.

Già di partenza il binomio è più complesso: non si tratta di due parti, per così dire, “semplici”, bensì di due parti composite, due gruppi all’interno dei quali si articolano reazioni differenti. Se dobbiamo tuttavia individuare due parti singole, allora senza dubbio da un lato c’è Servillo, il capo-ispettore, e dall’altro uno dei detenuti più vecchi e più scaltri, Carmine Lagioia (Silvio Orlando), la cui unione è decretata non soltanto dalle posizioni di riferimento che entrambi ricoprono all’interno delle due fazioni ma anche da un fatto concreto: si decide che sarà Carmine a cucinare per tutta la brigata ogni giorno, pranzo e cena, controllato a vista dall’ispettore Gargiulo.

Gradualmente, è proprio nell’atto silenzioso e intimo del cucinare, che richiama attraverso i soli profumi ricordi d’infanzia che spezzano per natura la cortina formale tra due ruoli ufficiali, che il carcerato smuove l’ispettore, il quale comincia a “sentire le emozioni come un detenuto” e a stare alle richieste delle “vittime”. La differenza vera con gli altri film è che, in questo caso, è un terzo elemento ad unire i due vertici, la sintesi che nelle altre narrazioni mancava e che faceva sì che il magnetismo tra i personaggi si interrompesse bruscamente finita la circostanza che li teneva uniti. Tra tesi e antitesi, ispettore e carcerato, arriva una figura nuova, idealmente partorita come un figlio dall’incontro/scontro tra i due uomini.

Si tratta di un nuovo arrivato, molto giovane, Fantaccini, accusato di aver scippato un vecchio che è in coma e rischia di morire. Anche qui in un certo senso il ragazzo passa dall’essere carnefice fuori dallo spazio della prigione ad essere vittima all’interno delle sue mura (tutti hanno paura che compia un gesto fatale, è fragile, “piange in carcere”, non è stato cresciuto dai genitori). Diventa appunto un figlio, in particolare per Carmine e Gaetano, che trovano una figura intorno a cui incontrarsi, un centro tra due persone “che non hanno niente a che spartire”, uno che la notte dorme tranquillo e l’altro che avrà debiti perenni con l’umanità. Eppure, nell’atto del cercarlo quando il ragazzo scappa nei corridoi vuoti del carcere e minaccia di uccidersi, vittima e carnefice individuano in lui il prodotto di una crasi che sembra impossibile. Una crasi che, a ben pensarci, si produce anche nel titolo: uno strano connubio tra l’elemento più mobile che esista e il suo stato contrario, e che denuncia allo stesso tempo l’importanza dello “spazio atmosferico” del carcere e il suo sapersi costruire intorno all’incontro tra due (e tra molti) di cui prima dicevamo.

Non a caso le celle a Mortara sono disposte in circolo, intorno ad un ipotetico centro che diventa, nel culmine dell’unione tra i due “schieramenti”, il teatro di una cena al buio (all’improvviso salta la corrente elettrica) in occasione della quale ai detenuti è permesso portare i tavoli fuori dalle celle e disporli in un’unica “tavolata” dove, in un’oscurità uterina che annulla le differenze, si brinda con l’acqua e ci si conosce forse davvero per la prima volta.

Se il film si fermasse nel momento in cui il blackout finisce e torna la luce – quella luce che indaga tutte le notti attraverso le torce i corpi addormentati delle vittime separandoli tirannicamente dal buio dell’intimità –, si chiuderebbe analogamente ai precedenti. Qui però, lo abbiamo detto, è quella terzietà del giovane carcerato a rappresentare la vera sutura tra vittima e carnefice. Quando Fantaccini viene chiamato dal tribunale per il verdetto, la sua uscita di scena già non può più pregiudicare il reciproco riconoscimento dei genitori simbolici: il figlio diventa autonomo e parte. Carmine e Gaetano, mentre raccolgono le erbe dell’orto, si riconoscono parti di una stessa “famiglia”. Entrambi cresciuti nello stesso quartiere: il figlio dell’oste e il figlio del lattaio.

Ariaferma. Regia: Leonardo Di Costanzo; sceneggiatura: Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Carlotta Cristiani; scenografia: Luca Servino; costumi: Florence Emir; musica: Pasquale Scialò; interpreti: Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Roberto De Francesco, Pietro Giuliano, Nicola Sechi, Leonardo Capuano, Antonio Buil, Giovanni Vastarella, Francesca Ventriglia; produzione: Tempesta, Amka Films Productions, Rai Cinema; origine: Italia; durata: 117; anno: 2021.

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