Prima l’immagine di una chiesa ortodossa poi, lentamente, il drone retrocede levandosi in cielo e svelando una serie di scheletri di edifici distrutti dalle bombe. Macerie di quelle che prima erano abitazioni, uffici, ospedali, scuole, ecc. Il prologo di Architecton di Victor Kossakovsky si apre mostrando alcuni dei lasciti causati dalla guerra russo-ucraina. Non vediamo cadaveri, civili, militari, nessuna figura umana. Protagonista è uno scenario apocalittico di carcasse architettoniche, segno di una civiltà che è finita per autodistruggersi. Anche per la natura sembra essere ancora troppo presto per riprendere possesso di questi luoghi. Da uno spazio urbano distrutto e violato, così come è stata violata e distrutta la natura che lo contiene, passiamo ad uno spazio sacro, ancestrale, un cerchio della vita che l’architetto italiano Michele De Lucchi decide di disporre nel cortile di casa propria. Un lungo piano sequenza con inquadratura fissa mostra due operai tracciare e scavare un cerchio sul terreno e disporre con cura alcune pietre. L’architetto osserva, conduce i lavori e una volta ultimati battezza quel luogo. Ci passerà lui per l’ultima volta e poi nessun altro, se non i cavalli o i cani. Sarà uno spazio liberato dalla presenza umana e riconsegnato alla natura. 

Si potrebbe associare il film al concetto di ecocinema delineato da Maricondi, facendo riferimento a quelle produzioni che rimuovono l’essere umano dal centro del quadro e della narrazione, al fine di far emergere l’ambiente naturale in primo piano, cercando di far prendere coscienza allo spettatore su questioni che possono essere problemi climatici, il riscaldamento globale e l’inquinamento causato dall’attività dell’uomo, mostrando e suggerendo possibili cambiamenti da compiere nelle nostre scelte quotidiane, come individui e società. Architecton si concentra sul ciclo di vita della pietra, che da elemento naturale diventa materiale estrattivo e di costruzione, infine rovina architettonica. Il film svolge un’importante funzione eco-critica attraverso una modalità contemplativa che, secondo Helen Hughes, la quale parla di environmental documentary, «comporta un rallentamento della presentazione dei fenomeni in modo che lo spettatore abbia il tempo di tenerli a mente e contemplare le interconnessioni tra conoscenza ed emozioni sull’ambiente» (Hughes 2014, p. 13). Questa forma si discosta da quella argomentativa che caratterizza la maggior parte dei documentari ambientali, tra esposizione di natura scientifica, attivismo e propaganda.

La macchina da presa si concentra, attraverso lunghi piani sequenza con inquadratura fissa, su come la pietra venga estirpata dalla natura, per fenomeni naturali, con spettacolari immagini del terremoto avvenuto in Turchia nel 2023, assistiamo letteralmente alla frana di un costone di una montagna, o quando viene fatta detonare dall’uomo. Il ciclo vitale della pietra passa poi attraverso diverse fasi di lavorazione negli impianti di betonaggio, resa in forma di sabbia e ghiaia per la formazione del calcestruzzo. Attraverso immagini di forte impatto visivo, così come l’accompagnamento musicale e l’utilizzo dello slow-motion, il film ricerca un ecological sublime, partendo da una riconfigurazione del regime scopico dello spettatore. Facendo riferimento all’opera di Peter Hutton, ad esempio, Scott MacDonald, così come Maricondi, sostiene che il cinema sperimentale, stimolando una differente modalità di percezione rispetto ad una forma tradizionale, ricercando una sensibilità “edenica” opposta a quella tradizionalmente consumistica, possa portare lo spettatore ad andare oltre l’immagine mostrata, a scavare e a cercare nel fuoricampo, come le immagini si siano compiute, a stimolare la formazione di un pensiero critico su questioni legate allo sfruttamento ambientale, come in questo caso. È pulsante e percepibile la natura materiale dello scorrere del tempo all’interno dell’inquadratura, un tempo che sembra inesorabilmente e drammaticamente portare ad uno scenario apocalittico.

Nel finale del film, il regista in scena dialoga con Michele De Lucchi. Come sfondo abbiamo ancora il cortile della casa dell’architetto. È passato del tempo e distinguiamo il cerchio della vita, questo spazio salvato dall’azione umana, per l’erba alta al suo interno, mentre il prato del giardino è tutto ben tagliato. Un dentro in cui lasciare che la natura si esprima. I due uomini si interrogano su cosa resterà del nostro presente. Come è possibile che edifici costruiti migliaia di anni fa siano ancora in piedi mentre adesso quello che costruiamo è destinato a durare poco, a crollare per i conflitti e i disastri naturali? De Lucchi sostiene che una delle ragioni è da attribuire al fatto che dalla pietra, e da altri elementi naturalmente ecologici, siamo passati a costruire con materiali inquinanti e deperibili, inseriti all’interno di un ambiente che non appartiene loro con il quale non possono armonizzare. Si tratta di un altro modo in cui l’uomo interviene sull’ambiente facendolo soccombere alle proprie funzionalità.

Riferimenti bibliografici
H. Hughes, Green Documentary. Environmental Documentary in the Twenty-First Century, Intellect Ltd, Bristol 2014.
S. MacDonald, Toward an Eco-Cinema, in “Interdisciplinary Studies in Literature and Environment”, vol. 11, n. 2, 2004.
P.W. Maricondi, Framing the World. Explorations in Ecocriticism and Film, University of Virginia Press, Charlottesville 2010.

Architecton. Regia: Viktor Kosakovskij; fotografia: Ben Bernhard; montaggio: Viktor Kosakovskij, Ainara Vera; musiche: Evgueni Galperine; produzione: ma.ja.de Filmproduktions-GmbH, Point du Jour International, Les films du Balibari, Hailstone Films, A24; origine: Germania, Francia, Stati Uniti d’America; durata 94′; anno: 2024.

Tags     documentario, ecocinema
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