Con il termine Antropocene, elaborato da Eugene Stoermer a metà degli anni settanta e successivamente ripreso e approfondito da Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica, nel testo Benvenuti nell’Antropocene (2000), si indica l’era geologica attuale, profondamente influenzata dall’essere umano e dalle sue attività, che hanno avuto e stanno avendo un impatto irreversibile sul pianeta, provocando modifiche territoriali, strutturali e climatiche. Un tema costante ed estremamente dibattuto in politica, così come nelle pratiche sociali, entrato all’interno del nostro immaginario e del nostro quotidiano attraverso i media, la televisione, i giornali e il web. Il cambiamento climatico, l’inquinamento atmosferico, la crescita della popolazione globale sono argomenti su cui anche il cinema, per la sua natura transnazionale e transculturale, ha iniziato a riflettere in maniera approfondita.

Ann Kaplan, nel volume Climate Trauma (2015), pone l’accento sul proliferarsi dei futurist dystopian film che raffigurano scenari apocalittici a seguito di disastri globali, provocati dall’azione distruttiva dell’uomo, da Snowpiercer (Bong Joon-ho, 2013) a Interstellar (Christopher Nolan, 2014), da The Road (John Hillcoat, 2009) a The Book of Eli (Codice Genesi, Albert e Allen Hughes, 2010), per citarne alcuni. La studiosa si interroga sull’efficacia di determinate produzioni nel rendere lo spettatore consapevole delle problematiche affrontate. Attraverso quali forme, quali strategie e quali estetiche il cinema può condurre forme dirette di attivismo e di azione? Una domanda a cui è impossibile rispondere ma che può essere il quesito di partenza per porre una riflessione sulle possibili reazioni dello spettatore. Kaplan ritorna ad un concetto formulato nel volume Trauma Culture (2005), in cui, partendo dall’11 settembre, si interrogava sulle nuove figure testimoniali in rapporto al mediatized secondary trauma, delineando e analizzando le possibili risposte dello spettatore alle immagini di disastri e catastrofi esperite attraverso i mezzi di comunicazione di massa. La studiosa formula il concetto di ethical witnessing, un processo che suscita un’autoanalisi critica e un’elaborazione da parte dello spettatore.

Il cinema di fiction riflette su tematiche quali riscaldamento globale e inquinamento, sulle condizioni psicologiche e le rappresentazioni mediali della catastrofe andando a delineare quello che Kaplan definisce Pretraumatic Stress Syndrome (PreTSS), in contrapposizione con il disturbo da stress post-traumatico. I film di fiction presi in esame ipotizzano e prefigurano un evento catastrofico, che potrebbe accadere, ma che non è ancora avvenuto, riconfigurando sensibilmente la temporalità dell’esperienza traumatica. Il trauma infatti, nel concetto elaborato dalla scuola di Yale, consiste in un’esperienza accaduta nel passato, non assimilata cognitivamente dal soggetto nel momento del suo accadimento, «risposta, a volte ritardata, ad un evento molto intenso, che prende la forma di ripetute, intrusive allucinazioni, sogni, pensieri o credenze provenienti dall’evento» (Caruth 1991, p. 182).

Tuttavia, i film distopici presi in esame da Kaplan, nonostante riflettano sulle dinamiche concernenti l’impatto dell’uomo sull’ambiente, utilizzano lo scenario post-apocalittico come ambientazione, focalizzando l’attenzione piuttosto sul meccanismo psicologico o le dinamiche relazionali che contraddistinguono l’essere umano che deve affrontare una situazione critica. I futurist dystopian film offrono una limitata possibilità per una testimonianza etica, dal momento che non suscitano nello spettatore una presa di posizione o di responsabilizzazione. Contrariamente, a mio avviso, il cinema documentario, per il legame referenziale con il mondo esterno, attraverso una modalità interrogativa, può lasciare spazio alla riflessione personale producendo la formazione di un pensiero critico nello spettatore, intorno a determinate dinamiche, come possono essere i problemi climatici, il riscaldamento globale e l’inquinamento causato dall’attività dell’uomo.

Anthropocene (Antropocene – L’epoca umana, 2018) risulta essere un caso di studio estremamente interessante per reinterrogarsi sulle forme e le strategie, adottate nel cinema documentario, per lasciare spazio alla riflessione personale e alla formazione dell’ethical witnessing. Il film, realizzato da Jennifer Baichwal, Nicholas de Pencier e Edward Burtynsky, conclude la trilogia composta dai precedenti Manufactered Landscapes (2006) e Watermark (2013). Il documentario è diviso in quattro capitoli: Extraction, Technofossils, Anthroturbation e Extiction che illustrano alcune delle conseguenze dell’impatto delle attività umane sul nostro pianeta, attraverso immagini spettacolari, riprese aeree e subacquee, realizzate in 43 paesi differenti. Ad accompagnare questo viaggio intorno al mondo, una voice over appartenente, nella versione originale, ad Alicia Vikander mentre in quella italiana ad Alba Rohrwacher, riporta lo spettatore, stupefatto dalla bellezza delle immagini di forte impatto visivo, ad una situazione critica, sottolineando le problematiche dovute allo sfruttamento delle risorse terrestri da parte dell’uomo.

Il primo capitolo mostra, ad esempio, differenti territori completamente e irrimediabilmente trasformati dall’estrazione di materiale, dall’impianto di estrazione di nichel di Norilsk in Siberia, tra le dieci città più inquinate al mondo, le piscine in cui viene lavorato il litio nel deserto di Atacama, le cave di marmo di Carrara oppure la miniera di lignite a cielo aperto nel nord della Westfalia, in Germania. Le immagini aeree, inizialmente, mostrano un territorio incontaminato, una natura sconfinata, per poi svelare una visione di insieme in cui si nota il devastante impatto dell’uomo, anche in luoghi remoti, come nel caso del deserto cileno. In un primo momento, l’immagine dal drone mostra una distesa sconfinata e brulla. Progressivamente, l’inquadratura si allarga e notiamo una moltitudine di piscine artificiali, la cui acqua è di colore giallo o azzurro, che costellano il deserto. L’impatto dell’uomo avviene sulla natura incontaminata e sugli stessi agglomerati urbani, come nel caso di Immerath in Germania, una delle cittadine completamente rase al suolo per poter allargare la miniera di lignite.

Il film evita di ricorrere alla topica della denuncia, ricercando un persecutore, come potrebbero essere le grandi compagnie internazionali che nel nome del progresso, nella ricerca di risorse, stanno distruggendo effettivamente il pianeta. L’individuo non è mosso dall’indignazione davanti allo scenario mostrato, non rivolge il proprio sguardo o concentra l’attenzione verso un ipotetico colpevole, dal momento che la voce narrante interpella di continuo lo spettatore, facendo notare come tutti quanti noi dobbiamo ritenerci responsabili di quello che sta succedendo. Il film cerca di restituire le sfumature dell’Antropocene, non distinguendo zone of comfort e zone of suffering, ma mostrando differenti paesaggi modificati dalla mano dell’uomo o luoghi che rischiano di sparire, per l’innalzamento dei mari ad esempio.

Nonostante il racconto preveda una forte drammatizzazione, dalla spettacolarità delle immagini alla voce narrante e all’accompagnamento sonoro, non ricerca l’effetto patemico, che potrebbe suscitare commiserazione nei confronti della vittima. Questo aspetto risulta chiaro nell’ultimo capitolo, Extiction, in cui vengono presentati alcuni animali, ormai estinti in natura, costretti a vivere in cattività. Tuttavia, lo sguardo della macchina non si sofferma su creature sofferenti o agonizzanti come nel caso, in alcuni passaggi, della serie di documentari britannici Our Planet (2019).

Lo spettatore viene messo di fronte ad una moltitudine di contraddizioni. Molti dei lavoratori che vengono intervistati sono consapevoli del danno provocato dal loro operato, che ritengono, tuttavia, necessario. La soluzione va trovata altrove. È necessario scavare tunnel nelle montagne per migliorare il trasporto e il commercio dal momento che la popolazione è in continua crescita. È necessario inoltre continuare a scavare nelle cave di marmo di Carrara, per estrarre un materiale estremamente pregiato, usato da Michelangelo e da altri importantissimi scultori e artisti, nonostante ci venga mostrato come questo sia impiegato, principalmente, per ricreare delle copie in serie delle opere del passato da vendere ai privati.

In aggiunta, l’essere umano cerca di rimediare al danno commesso perseverando nello sfruttamento della terra. L’estrazione del litio, usato per le batterie delle macchine elettriche non inquinanti, oltre che dei dispositivi elettronici, sta in realtà irrimediabilmente distruggendo il deserto di Atacama. Questo aspetto paradossale emerge anche nel finale. Se da una parte il governo keniota decide deliberatamente di bruciare centinaia di zanne d’elefante, per rivendicare la ferrea posizione nel combattere il commercio d’avorio, dall’altra, il mercato ha trovato un sostituto nelle zanne fossili dei mammuth, estratte dal permafrost siberiano.

Antropocene mostra dunque il danno provocato dall’impatto umano, con i primi effetti evidenti e irreversibili, non servendosi esclusivamente di immagini shock, che potrebbero portare esclusivamente ad una sovra-stimolazione sensoriale, e potenzialmente al trauma vicario, ma rappresentando la catastrofe a distanza con un grado di consapevolezza nei confronti dell’accaduto, non per far perdurare il responso emotivo ma per suggerire un’autoanalisi critica, un’elaborazione attraverso una modalità etica e costruttiva.

Riferimenti bibliografici
C. Caruth, Unclaimed Experience: Trauma and the possibility of History, in «Yale French Studies», Vol. 79, 1991.
E. A. Kaplan, Trauma Culture. The Politics of Terror and Loss in Media and Literature, Rutgers University Press, New Brunswick 2005.
Id., Global trauma and public feelings: Viewing images of catastrophe, in «Consumption, Markets and Culture», Vol. 11, No. 1, 2008..
Id., Climate Trauma: Foreseeing the Future in Dystopian Film and Fiction, Rutgers University Press, New Brunswick 2015.

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