Nella collana Surplace dell’editore Eutimia è ora disponibile la riedizione di Anima Minima, Sul bello e sul sublime, volume pubblicato per la prima volta nel 1995, per la traduzione e cura di Francesca Sossi; una raccolta di quattro lavori di Jean-François Lyotard che cerca di dar conto del dialogo che l’autore ha intrattenuto con Kant e degli esiti filosofici che questo ha comportato, in particolare rispetto alla lettura e rielaborazione della categoria estetica del sublime.

La scelta dei testi, operata dalla curatrice in accordo con l’autore, consente di inquadrare la modalità di lavoro «curiosamente ‘a doppio taglio’» (ivi, p. 149) con cui Lyotard affronta minuziosamente la lettura della terza Critica per poi approdare a un’interpretazione che rende quasi irriconoscibili le intenzioni originarie di Kant e che conduce a una strana ma possibile associazione: il rapporto del sublime con l’opera d’arte (ivi, p. 10). Un’arte aformale, astratta e minimale, che Lyotard rintraccia nelle avanguardie artistiche.

Come sottolineano Sossi e Amato, rispettivamente nella Introduzione e nella Postfazione, in questa possibilità di rottura con le letture tradizionali, che consente di intravedere un oltre rispetto alle estetiche figurali di stampo moderno, Lyotard sceglie di utilizzare il come se kantiano che pone in relazione la natura con l’arte bella in una modalità tale da portare la riflessione sul sublime oltre Kant. L’autore applica la medesima struttura metaforica proposta da Kant alla rohen Natur, la natura grezza, intesa come non-natura e occasione per esperire il sentimento sublime, in accostamento con un’arte che non è arte (ivi, p. 12), nella misura in cui essa trascende la forma e, tramite il gesto dell’artista, rivela l’impresentabile dell’umanità, consente al soggetto di smettere di essere ciò che è, di fare esperienza dell’eccedenza di sé e di incontrare la dimensione dell’inumano (ivi, p. 152).

La raccolta si apre con il testo di una conferenza tenuta da Lyotard al Collège International de Philosophie nel novembre del 1986, intitolata Sensus communis (ivi, pp. 23-53), in cui l’autore si allontana da una lettura antropologico-empirica della comunità richiesta dal gusto, evidenziandone il carattere ideale e trascendentale in quanto comunità del senso, senza intelletto. Un sensus insensibile all’intellectus (ivi, p. 25) che apre ad una questione che si colloca alla frontiera tra filosofia e arte, propria dell’estetica. Il senso comune è il mortificante onore (ivi, p. 26) che l’intelligenza minima riceve, venendo degradata da intelletto a senso, e contemporaneamente, risalendo alle fonti della capacità originaria di giudicare, presupposto per ogni attività intellettuale e volontaria, e per il darsi del soggetto in quanto tale. Seguendo il testo kantiano, Lyotard definisce il senso comune come sintesi sentimentale non denotativa, meramente soggettiva e singolare, «sede» stabilita a posteriori di una pura capacità di riflessione (ivi, p. 30) che è però a priori universalmente comunicabile in quanto principio d’unisono delle facoltà (eufonia), comune per natura a tutti gli esseri umani in quanto sostrato soprasensibile proprio del pre-soggetto (ivi, p. 52). La prima e principale conseguenza di questa proposta interpretativa lyotardiana è il rifiuto di un accostamento di sensus con la definizione ordinaria di senso, trattandosi invece di una capacità riflettente, e del “communis” con il “culturale”, trattandosi invece della possibilità del singolare di essere universalmente “comunicabile”.

Ne L’interesse del sublime del 1988 (ivi, pp. 55-89), secondo testo del volume, Lyotard affronta i temi proposti dalle tre critiche kantiane in chiave economica, in particolare il rapporto tra etica ed estetica, la loro eterogeneità e la lettura non conclusiva della analogia tra il bello e il bene, autorizzata da argomenti logici (proprietà trascendentali) comuni tra il giudizio estetico e quello morale, e argomenti teleologici, con particolare riferimento alla nozione di interesse. Dalle argomentazioni di Lyotard si evince che tra l’ambito morale ed estetico, se esiste una parentela, si tratta di una «parentela alla lontana»: dal punto di vista logico «l’interesse risulta, nell’etica. Nell’estetica, il disinteresse inizia» (ivi, p. 67); dal punto di vista teleologico, il discorso si complica ulteriormente con l’introduzione della categoria di sublime che rompe la fragile unione tra favore estetico e rispetto etico. La strada tracciata dall’ermeneutica lyotardiana si dirige, kantianamente, sulla nozione di uso; per attivare i poteri delle nostre facoltà conoscitiva e desiderativa siamo mossi da un interesse che «fa essere nel mondo il sapere sul mondo» (ivi, p. 74). Dal punto di vista etico, il movente è il rispetto (Achtung), ma è un movente disinteressato, apatico, privo di interesse, che Lyotard accosta al sentimento del sublime, figlio di un padre felice (la ragione, moralista), e una madre infelice (l’immaginazione, artista). Il rispetto si eleva, il sublime si erge, ci ricorda Lyotard (ivi, p. 78). È dunque l’uso che facciamo delle nostre intuizioni ad essere sublime, non la natura o gli oggetti sensibili. Un uso che è violento, che l’autore francese definisce abuso (ivi, p. 94) e che mostra in tutta la sua portata la forza di una doppia sfida posta dalla Critica del Giudizio, e approfondita nel terzo contributo dell’antologia intitolato Un confronto tra il sublime e il gusto (pp. 93-122), testo del secondo capitolo delle Leçons sur l’Analytique du sublime (1991).

Quella che sembrava essere una semplice appendice atta a edificare un ponte tra il teorico (prima Critica) e il pratico (seconda Critica), tra il potere di conoscere e il potere di volere, crolla sotto il peso dell’interesse del sublime che scompagina l’economia delle facoltà (ivi, p. 13). Nell’esperienza del sentimento sublime, l’immaginazione arriva all’estremo della propria potenza ripiegandosi su sé stessa, violentandosi, mentre la ragione si spinge al limite esperendo in uno stato spasmodico di terrore e piacere il desiderio (vano) di illimitatezza. Da questa condizione emerge per Lyotard la possibilità di riflettere su un’estetica dello stato spasmodico (ivi, p. 14), detta del presque rien, in continuità con quella ancora figurale del beaucoup trop, in cui l’intelletto, subissato di forme non prosegue nel libero gioco con l’immaginazione, ma lascia spazio alla ragione e alla possibilità del sentimento sublime (ivi, p. 122).

In Anima Minima (1993), testo che chiude la raccolta (ivi, pp. 123-135) nonostante i pochi riferimenti kantiani, Lyotard pone il sentimento contrastante e quasi aberrante del sublime al fondo di ogni grande produzione artistica e si interroga sullo statuto dell’estetica in Occidente, in quanto maniera (modus aestheticus nella dizione kantiana) con cui la civiltà occidentale attualizza costantemente il nichilismo contemplando melanconicamente i propri ideali decaduti e intaccando velenosamente anche la filosofia (ivi, p. 125). Il pensiero filosofico-argomentativo, secondo Lyotard, deve difendere il proprio dominio attingendo al pensiero razionale e al logos, vanificando gli effetti negativi dell’estetica filosofica otto-novecentesca non più in grado di enunciare regole di educazione al gusto determinabile secondo concetto (ivi, p. 126) che condanna il piacere del bello a un’esperienza senza criteri in cui tutti i giudizi si equivalgono. In questo contesto, l’estetica rifiuta anche la possibilità di sistematizzare l’esperienza del sublime, che viene provata in occasione di una sensazione e che eccede la stessa sensibilità. L’affezione (aesthesis) del soggetto, che Lyotard chiama anima, a contatto con un evento sensibile non solo rende evidente un’originaria concordanza del pensiero con il mondo, ma presuppone che l’anima esista solo in quanto affetta dall’altro. In questa dimensione, l’anima esiste solo se esposta e asservita: «Esistere significa essere risvegliati dal nulla della disaffezione attraverso un sensibile» (ivi, p. 129). In questo double bind, descritto da Kant nei termini di contrasto tra piacere e dispiacere, ma anche da Burke (ivi, p. 131), l’anima prova il terror nella privazione e il delight nell’arte, che sospende il senso di minaccia.

L’opera d’arte, l’oggetto sensibile, è un dispositivo che attualizza questo contrasto. In questa ambivalenza dell’opera, realizzata dal gesto dell’artista, e del gioco del bambino (il fort/da di freudiana memoria citato dallo stesso Lyotard a p. 132), si compie la trasformazione da vista a visione e da apparenza ad apparizione (ibidem) e si ricorda all’anima la necessità di quel in cui l’arte ha il potere di trasformare il sensibile e di indurre la sensazione tramite la traccia, lo stile che abita e segna l’opera nel suo insieme (ivi, p. 133). Le avanguardie artistiche, secondo Lyotard, elaborando il nichilismo anziché occultarlo, aprono alla possibilità di una riflessione filosofica nuova sull’estetica (e sulla politica, come suggerito da Amato nella Postfazione) avendo come proprio oggetto lo stile e in quanto esso richiede un’ascesi contraria alla maniera della cultura contemporanea. Alla luce di queste riflessioni, Lyotard conclude che il compito che la filosofia è chiamata ad assumere, seguendo la dizione di Alain Badiou, è quello di esprimere il pensiero argomentativo tramite una scrittura riflessiva che «si ostini a interrogare la sua stessa proprietà e, con ciò, ad espropriarsi incessantemente» e che possa cogliere al massimo nell’anima minima, come condizione minima dell’estetica, il mistero della sensazione (ivi, p. 134).

Jean-François Lyotard, Anima minima. Sul bello e sul sublime, Introduzione, traduzione e cura di Federica Sossi, Postfazione di Pierandrea Amato, Eutimia, Napoli, 2023.
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