Negli ultimi anni, soprattutto da quando Carlo Fuortes ne è stato nominato sovrintendente, l’Opera di Roma dà uno spazio insolito al Novecento, offrendo al pubblico messinscene innovative di grandi capolavori che spesso i teatri d’Opera non valorizzano quanto dovrebbero. Nel 2016 è stato il caso di The Bassarids di Hans Werner Henze, affidato alla regia di Mario Martone, in uno spettacolo di straordinario impatto visivo e drammatico che ha inaugurato la stagione.
Anche quest’anno ritroviamo la felice combinazione fra un nuovo allestimento, in coproduzione con il Teatro Real di Madrid e con il Covent Garden di Londra, e una delle opere più affascinanti del Novecento: Billy Budd (1951) di Benjamin Britten. Come Henze, anche Britten non è un compositore che si può incasellare nel facile binomio fra avanguardia e tradizione, ed è una delle figure che più ha contribuito allo sviluppo dell’opera contemporanea, mettendo in musica testi letterari complessi, lontani dalla drammaturgia ottocentesca: sfide impossibili proprio perché narrazioni basate sull’ambiguità elevata a sistema, come Il Giro di vite (The Turn of the Screw, 1954), proposta anni fa dall’Opera di Roma in una memorabile regia molto pittorica di Luca Ronconi, e tratta dal racconto fantastico di Henry James che ha dato vita a vari adattamenti cinematografici, da The Innocents (UK 1961) a The Others (Usa-Spagna-Francia 2001) di Amenábar, passando per il prequel The Nightcomers (UK, 1972).
Ultima opera di Melville, composta fra il 1888 e il 1891 e pubblicata postuma nel 1924 in una stesura su cui gravano molte incertezze, Billy Budd è un racconto che affronta una rete di rapporti affettivi ed emotivi fortemente ambigui, ambientati nel microcosmo claustrofobico di una nave, da sempre contesto prediletto per raffigurare l’esplosione del desiderio omosessuale. Scritto in uno stile meno barocco rispetto a Moby Dick e quasi saggistico, il racconto è costellato di riferimenti biblici e mitici, che contrappuntano lo sviluppo del tema del male. Per portare sulla scena musicale quest’altro capolavoro di introspezione, Britten sceglie un librettista eccezionale, il romanziere jamesiano Edward Forster, che gli chiede però giustamente di essere affiancato da un drammaturgo (verrà scelto Eric Croizer, già collaboratore di Britten). Forster aveva allora settant’anni, e non pubblicava opere da un po’ di tempo, concentrato come era su Maurice, romanzo a tema omosessuale che per suo volere uscirà postumo solo nel 1971, ma che Britten e il suo compagno Peter Pears (il tenore per cui ha scritto quasi tutta la sua produzione) avevano letto da tempo, perché legati da amicizia verso il grande romanziere. E, come vedremo, qualcosa di questa storia gay a lieto fine si risentirà nel libretto di Billy Budd, in particolare nella trasformazione del protagonista in una sorta di angelo salvifico.
In Melville Billy Budd è il tipico personaggio che incarna l’innocenza assoluta, l’Eden prima della caduta: non a caso viene definito più di una volta «barbaro», un aggettivo usato in senso positivo, per connotare un’incoscienza pagana e sensuale che impressionerà e influenzerà Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini, i quali elaboreranno in parallelo, anche sulla scia di questo testo, un’autentica poetica della barbarie. A questo slancio vitale, a questo rapporto non problematico con il mondo, Billy Budd unisce una bellezza fuori dal comune che perturba in vario modo sia il capitano Vere, sia il personaggio negativo, il maestro d’armi Cleggart, sia tutta la ciurma. Questa capacità di seduzione cosmica, magnetica e dionisiaca, è stata interpretata sullo schermo nel 1961 da Terence Stamp, pochi anni prima che impersonasse l’ospite misterioso e perturbante in Teorema di Pasolini, e ha trovato nell’edizione dell’Opera di Roma un’espressione efficace da parte del tenore Philip Addis, dal corpo atletico, perfettamente calibrato nei movimenti sulla scena e nelle espressioni del volto.
Nella rielaborazione di Forster la barbarie di Billy Budd si arricchisce di tonalità introspettive e soggettive, così come l’attrazione nascosta del maestro d’armi Cleggart trova un’espressione articolata in una lunga aria, che è stata messa in parallelo con il Credo di Jago nell’Otello di Verdi, e che permette un’empatia negativa e sotterranea con quest’ulteriore incarnazione del male. In linea con tendenza alla riscrittura psicologica, il Capitano Vere diventa il narratore e il centro focale dell’opera, non destinato a morire nel finale, in cui interpreta la figura destabilizzante di Billy Budd come angelo salvifico, un po’ come il ragazzo sottoproletario che nel finale di Maurice scioglie le resistenze del protagonista.
Nell’affrontare questa sorta di grand opéra tutta al maschile, la regista Deborah Warner, che ha una lunga esperienza britteniana alle spalle, si è focalizzata sul valore espressivo e simbolico dello spazio della nave, reso dalla scena di Michael Levine nella sua profondità e nella sua dialettica fra alto e basso; tratti resi ancor più vividi e drammatici dalle luci affascinanti di Jean Kalman. Un altro punto forte della regia è stato il lavoro sul coro, arricchito per l’occasione dalla Scuola di canto corale dell’Opera di Roma: la comunità dell’equipaggio è rappresentata in tutte le sue sfaccettature e in tutte le sue tensioni, alternando caratterizzazioni singole a immagini compatte della comunità come personaggio, per culminare nella scena assai efficace della minaccia di rivolta nel finale, dove la tensione tragica raggiunge un’incandescenza emotiva straordinaria, potenziata dalla direzione espressionistica di James Conlon.
Pochi mesi fa il Teatro di San Carlo ha presentato la Lady Macbeth nel distretto di Mtsensk (1934) di Dmitrij Šostakovič, nella regia sfavillante di Martin Kusej, grottesca e corporea: un altro capolavoro del teatro musicale novecentesco di un compositore legato a Britten da una profonda amicizia (a lui è dedicato The Prodigal Son, parabola del 1968 che l’Opera di Roma ha proposto nel 2014 nella regia di Mario Martone e con la direzione sempre di Conlon nella Basilica di Santa Maria in Ara Coeli): come scrive James Conlon nel saggio del programma di sala di Billy Budd, entrambi dovevano scrivere in codice, per motivi diversi (l’omosessualità ancora censurata, l’oppressione sovietica).
Se a questo aggiungiamo che il Maggio Musicale di Firenze ha inaugurato con un’opera dell’espressionismo tedesco, fosca e perturbante, Cardillac (1926) di Paul Hindemith, nella regia di Valerio Binasco, otteniamo un risultato notevole: in due mesi in Italia si sono potute vedere tre opere molto significative del Novecento musicale, proposte in edizioni convincenti e innovative, ed è certo un segnale estremamente positivo.
*Le foto che accompagnano questo articolo sono di Yasuko Kageyama.