Nel 2004, sulle pagine virtuali della rivista “Artforum”, un articolo del critico James Quandt si apprestò a diventare in breve tempo un tassello fondamentale nello studio del cinema contemporaneo. Breve stroncatura di Twentynine Palms (2003) di Bruno Dumont, Flesh & Blood: Sex and Violence in Recent French Cinema annunciava la proliferazione di una tendenza provocatoria, trasgressiva, in diverse produzioni autoriali francesi tra la seconda metà degli anni novanta e i primi anni duemila, definita dal critico New French Extremity. Seppur nato con accezione dispregiativa il termine è subito utilizzato da critica, pubblico e studiosi per riferirsi al fenomeno, senza possibilità di rivendicazione da parte degli autori per via del loro non essere parte del movimento, bensì testimoni eterogenei di uno spirito comune, di una ricerca estetica e tematica basata sul binomio sesso-violenza.
Molte letture e studi successivi portarono a interpretazioni fuorvianti del testo o concentrate spesso sull’immaginario e sugli aspetti prettamente orrorifici, macabri, perturbanti, andando così a sedimentare nell’immaginario collettivo una visione mostruosa e quindi distorta di ciò che sono e vogliono comunicare queste opere. Confusione con l’horror denunciata anni dopo dallo stesso Quandt come «un’imprecisione comprensibile» (Quandt in Horeck e Kendall 2011, pp. 210-211).
Cercando di superare la definizione di Quandt, in un articolo del 2006 lo storico Tim Palmer introduce l’idea di un «Cinema of the Body» caratterizzato da «un’intimità brutale» (Palmer 2006, pp. 22-32), che cinque anni dopo prenderà forma in un oggetto di studio chiamato cinéma du corps. Termine, a detta di chi scrive, più pertinente e meno fuorviante nel cogliere lo spirito e il senso di questi film, disancorandoli dalla dimensione dell’estremo terrificante, e riscoprendo una centralità e un interesse materiale, carnale.
In Brutal Intimacy. Analyzing Contemporary French Cinema, l’approccio empirico e l’analisi revisionista di Palmer tentano di inserire il fenomeno dentro un ecosistema contemporaneo, osservandolo con sguardo nuovo e più attento. Il cinéma du corps è presentato come un «interrogatorio sullo schermo della fisicità in termini brutalmente intimi» (Palmer 2011, p. 57), dove l’intimità è intesa come «fondamentalmente aggressiva, priva di romanticismo, di istinto educativo o di qualsiasi tipo di empatia; e relazioni sociali che si disintegrano di fronte a compulsioni così violente» (ivi, pp. 57-58). Un cinema dinamico che tramite la rappresentazione stilistica dei corpi e il suo utilizzo «come mezzo per generare esperienze sensoriali profonde, spesso impegnative» (ivi, p. 58), assurge a una sorta di avanguardismo capace di lasciare un segno indelebile nel cinema francese.
Dopo dieci anni di assenza, il ritorno sugli schermi di Catherine Breillat – uno dei nomi di spicco del fenomeno – segna una spregiudicata riscoperta della tendenza più incline alla lettura del cinéma du corps, in opposizione ai film di Julia Ducournau che riesumano gli approcci interpretativi da body horror legati alla New French Extremity. Con Ancora un’estate (2023) Breillat torna difatti alle origini, o meglio al suo primo periodo: insistenza su corpo, sesso, sessualità e rapporti intergenerazionali. Pur essendo un remake del film danese Dronningen (2019), la vicenda si pone perfettamente in linea con quelle tipiche della regista, tracciando un legame tematico soprattutto con Brève traversée e col rapporto di manipolazione-inganno che si sviluppa in un caso di efebofilia, qui trasportato all’interno del nucleo familiare.
Così come Théo e Pierre, il cinema di Breillat è invaso da uomini che di frequente subiscono il fascino e il controllo delle protagoniste femminili – il giovane con cui Lili perde la verginità in Vergine taglia 36 (1988); Thomas in Brève traversée (2001); Siffredi in Pornocrazia (2003); Johan in La bella addormentata (2011) –, a sua volta conseguente risposta a un’oppressione, a un trauma o a un inganno subito in passato dal mondo maschile. Le protagoniste, invece, in una filmografia che ha una forte connessione con la sua autrice, si presentano come sorta di simulacri immaginari della regista, mentre il cinema, lo spazio del film, diventa pretesto o mezzo attraverso cui esprimere desideri nascosti, indicibili, materializzandoli su schermo. È forse per questo che le protagoniste femminili, come Anne, si mostrano spesso in controllo e quando ciò non avviene l’identificazione autrice-personaggio è funzionale all’esorcizzare con il reenactment un evento traumatico – le riprese dell’anno precedente in Sex Is Comedy (2002); la truffa subita da Christophe Rocancourt dopo l’emiplegia in Abuse de faiblesse (2013) – oppure è individuabile in una figura secondaria – nella sorella in A mia sorella! (2001); nella figlia in Parfait amour! (1996) – che si pone voyeur, spettatrice di un ricordo spaventoso ma dal macabro fascino.
Fin da L’adolescente (1973), quello della Breillat è sempre stato un cinema in cui il corpo è significante, un mezzo comunicativo che riguarda tanto il rapporto con gli altri quanto il rapporto con la propria identità. In Ancora un’estate l’ebefilia di Anne sembra nascere dalla ricerca naturale di una mancanza corporea, di un desiderio represso dalle istituzioni sociali. Se il corpo del giovane Théo è mostrato fin dalla prima inquadratura come sano, tonico e disponibile, in antitesi a quello maturo, stanco e severo di Pierre, la stessa donna durante un rapporto con il marito ammetterà d’essere stata innamorata a quattordici anni di un amico della madre. Uomo descritto “come se fosse già morto, quasi un cadavere” che le suscitava però un contraddittorio disgusto. Ancora una volta: orrore e fascino. Da un lato la ricerca di una giovinezza persa, dall’altro la perversione per una maturità non ancora raggiunta.
Non si è però di fronte a un film fatto solo di corpi capaci di comunicare “sinceramente” tramite l’atto sessuale, ma un film fatto anche di volti. È con il primo piano di Anne che si apre l’opera, riprendendo da dove ci aveva lasciato dieci anni prima il finale di Abus de faiblesse, con lo sguardo fisso in camera di Isabelle Huppert. La regia austera di Breillat non sembra ritenere nemmeno più necessario palesare organi genitali e immagini esplicite, poiché c’è tutto un trascorso che parla per lei, rilegando così l’intimità brutale nel sottotesto. Nei primi piani ripresi a camera fissa, in ciò che comunicano, in ciò che non ci è dato vedere ma ipotizzare, in ciò che non si vede. Volti che nascondono significati diventando compendio di quello che sta davvero accadendo, dei giochi di potere e persuasione. Il volto di Théo durante il primo amplesso segna l’inizio della sua maledizione, quello di Anne al raggiungimento dell’orgasmo attesta il suo stato di donna vampiro, di atipica femme fatale. È quello che, in modo esplicito, accadeva in Pornocrazia quasi vent’anni prima. Durante il sesso, il volto di Anne non comunica mai un reale sentimento verso il giovane. Il brutale, la violenza che da fisica diventa psicologica, astratta.
Come si sarà compreso, la comunicazione del corpo non è una comunicazione soltanto diegetica, ma indirizzata anche allo spettatore, che diventa partecipante attivo, coinvolto negli eventi a cui è posto di fronte. Il cinéma du corps, infatti, ripensa «il ruolo dello spettatore cinematografico, rifiutando lo spettatore tradizionalmente passivo e divertito per richiedere invece un partecipante esperienziale visceralmente impegnato» (ivi, p. 60). Attraverso il corpo lo spettatore ha la capacità di svelare le maschere dei personaggi, indossate per ottenere l’oggetto del desiderio (il corpo dell’altro), mettendo in luce una società oltremodo ipocrita, contraddittoria e mossa dall’egoismo. Anne è una donna che di professione aiuta i minori – la vicenda di una ragazzina e del suo rapporto con il padre si ripresenta durante tutto il film –, che nella sfera privata non esita a soddisfare i propri piaceri carnali con il figliastro minorenne, per poi non esitare a mentire, denigrare e generargli traumi psicologici per farla franca.
Ma se siamo di fronte a personaggi che hanno la capacità di rivelarsi solo mediante il corpo, allora il valore della parola, anche della menzogna stessa, è destinato a infrangersi. Ecco che tutto il castello di bugie di Anne crolla nell’inquadratura finale: tornata a letto dopo aver fatto sesso un’ennesima volta con Théo – che prosciugato, ubriaco, barcolla pallido nella notte per ottenere ciò da cui dipende —, il marito toccandola la sente fredda. Anne vacilla, non riesce o non può mentire di fronte a cosa comunica il corpo. Quel “zitta” finale di Pierre che chiude il film vale più di mille parole, svelando consapevolezza e accettazione (o sottomissione?). I loro corpi scompaiono in una dissolvenza in nero e tutto ciò che rimane è un minuscolo puntino bianco, il riflesso della fede al dito di lui, simbolo dell’istituzione matrimoniale. In linea con il capolavoro Dans ma peau (2002) di Marina de Van – in cui appare una giovane Léa Drucker –, seppur con mezzi differenti, il film di Breillat sembra rielaborare i «contesti sociali alienanti del cinéma du corps, in cui mariti, mogli e amanti si dimostrano inadeguati, [e] le unità familiari di supporto sono sorprendentemente assenti» (ivi, p. 85).
Ancora un’estate si presenta quindi come un film capace di far tesoro dell’insegnamento del cinéma du corps, collocandosi in continuità con la tradizione e riuscendo a ottenere comunque un risultato nel complesso nuovo. Un film che non può, e non deve, essere separato dalla filmografia della sua autrice che, ancora una volta, tramite suggestioni erotiche, decide di consegnarci in modo più o meno dichiarato un pezzo intimo di sé. Che siano sogni o tormenti, dolci o brutali.
Riferimenti bibliografici
T. Horeck, T. Kendall, The New Extremism in Cinema. From France to Europe, a cura di, Edinburgh University Press, Edinburgh 2011.
T. Palmer, Brutal Intimacy. Analyzing Contemporary French Cinema, Wesleyan University Press, Middletown 2011.
T. Palmer, Style and Sensation in the Contemporary French Cinema of the Body, in “Journal of Film and Video”, Vol. 53, No. 3, University of Illinois Press, Illinois 2006.
J. Quandt, Flesh & Blood: Sex and Violence in Recent French Cinema, in “Artforum“, febbraio 2004.
Ancora un’estate. Regia: Catherine Breillat; sceneggiatura: Catherine Breillat, Pascal Bonitzer; fotografia: Jeanne Lapoirie; montaggio: François Quiqueré; interpreti: Léa Drucker, Samuel Kircher, Olivier Rabourdin, Clotilde Courau; produzione: SBS Productions, Globalgate Entertainment, Nordisk Film Norway; distribuzione: Teodora Film; origine: Francia; durata: 104’; anno: 2023.