“Tuo padre è chi ti ha cresciuta.”
“Mi hanno cresciuta molte persone.”
“E allora cosa importa chi è?”
Il lampo di un flash e il rumore di uno scatto fotografico, la figura di una ragazza che si illumina per una frazione di secondo per poi tornare ad essere riassorbita dal buio testimoniano l’inizio del film. Gli scatti si ripetono, la ragazza cambia posizione, cambia il modo di disporre il suo corpo, le sue braccia, e di sistemare l’espressione del viso. Quale di questi scatti le sembrerà più simile a chi ritiene di essere?
L’identità di Amira è definita dall’appartenenza, nello specifico l’appartenenza al popolo palestinese di cui suo padre (Nawar) rappresenta ai suoi occhi l’emblema. Nawar è detenuto a vita all’interno di un carcere israeliano per questioni politiche già molto tempo prima della nascita di Amira e questo rende la questione palestinese parte fondamentale della sua stessa identità, la vera scaturigine della sua esistenza. In che modo infatti due persone separate (nel migliore dei casi) dalla lastra di vetro interposta durate le visite ai reclusi e dagli infiniti controlli del carcere hanno potuto progettare di concepire e mettere al mondo una figlia?
Esiste un fenomeno realmente praticato in Palestina che rende possibile questa sorta di “immacolata concezione” (come la definisce lo stesso Mohamed Diab, regista del film): il traffico illegale di sperma dall’interno all’esterno delle carceri israeliane che le coppie palestinesi separate dalla detenzione utilizzano per poter ugualmente procreare. Questo è il modo in cui, nel film, è nata anche Amira che è però stata registrata come figlia di Bassan, fratello di Nawar, per far sì che venisse riconosciuta come legittima cittadina palestinese. Non sorprende dunque il modo in cui Amira viva come costitutivo della sua stessa identità il conflitto israelo-palestinese senza il quale non sarebbe mai venuta al mondo né il fatto che, costituendo il frammento del padre che è riuscito ad evadere di prigione garantendo la perpetuazione genetica della loro stirpe, abbia sviluppato un fortissimo senso d’appartenenza e di dovere nei confronti del suo popolo e di suo padre. Proprio dall’illegittimità rivoluzionaria della sua nascita vede delinearsi per ribaltamento la legittimità del suo definirsi palestinese, frutto di sangue e attivismo politico.
Fotografa mentalmente e praticamente la propria famiglia per poi creare le composizioni che più le paiono corrispondenti a ciò che può solo immaginare non avendo (avuto) modo né speranza di costruirsi quel rapporto padre-figlia che agogna. Lo stesso dedicarsi alla fotografia è la continuazione della passione del padre troncata dalla reclusione, ma in qualche modo portata avanti da Amira come tentativo di riscatto della libertà di quell’uomo che lei considera un eroe. Insomma, l’identità di Amira è solida, non vacilla, non è problematica, poggia su pilastri stabili che le permettono di individuarsi in maniera definita ed inequivocabile. Tuttavia a 17 anni è molto facile che questa percezione di sé sia destinata a mutare, eppure questo film non parla di quelle comuni dinamiche adolescenziali che portano alla (de)strutturazione identitaria: ad Amira accade qualcosa che le fa mettere in discussione le basi della sua stessa esistenza al punto da farla sentire un niente che vaga senza legami e senza fili, senza un passato e senza un futuro, senza giustificazione.
Quando suo padre e sua madre decidono di avere un secondo figlio utilizzando le stesse modalità usate per concepire Amira nessuno (tantomeno lei o lo spettatore) avrebbe potuto immaginare di trovarsi di fronte al seme di un uomo affetto da ipogonadismo congenito che in nessun momento della sua vita avrebbe mai potuto generarne una nuova. Ma l’autopercezione di Amira sembra basarsi sull’enunciazione verbale (in questo caso della madre, Warda) ancor più che su fattori genetici o legali: se “ciò che è scritto sulla mia carta d’identità” non ha valore se non per aggirare controlli di cui non riconosce la legittimità; le convalide mediche possono essere facilmente posposte ad una semplice conferma verbale. Basterebbe soltanto che sua madre fosse disposta a dichiarare che l’origine di Amira risieda in Nawar ed entrambi (padre e figlia) sarebbero disposti a crederle. Ma Warda, custode di quel segreto da diciassette anni, non sembra volersene fare nuovamente carico da sola. La delegittimazione genetica e nominale della sua identità fa da specchio, per Amira, anche ad una delegittimazione affettiva: il suo essere meritevole d’amore passa esclusivamente per ciò che è e lei era “la figlia di un eroe”.
Come fosse una sorta di etichetta che ha perso potere adesivo, la sua identità del tutto descrittiva si è staccata da lei senza che se ne rendesse conto ed ora è perduta per sempre volata chissà dove forse durante una delle sue visite in carcere, o caduta in qualche angolo nell’ospedale dove Warda avrebbe dovuto duplicare il numero di frammenti di Nawar evasi di prigione e non azzerarli, oppure dispersa durante una delle innumerevoli sessioni fotografiche a cui Amira si autosottopone con la sua reflex proprio per cercare di fissare in qualche modo i contorni della persona che era fiera di essere.
È così che Amira rifiuta i progetti di matrimonio offerti dal suo compagno Zyad (“Tu eri innamorato della figlia di un eroe, adesso non sono niente”) e a nulla valgono i tentativi di lui di spostare l’attenzione dalla rappresentazione decaduta che Amira ha di sé stessa a quella che ne ha lui dettata dall’amore. Sostiene di amarla “per quello che è” e lascia indicibilmente bianco lo spazio da compilare che indica cosa definitivamente sia questo “essere” che fa di Amira ciò che è. A partire dagli stessi presupposti Amira smette di creare e portare al padre in carcere quelle immagini artificiali che li ritraevano insieme nei posti più disparati del mondo ritenendo che potesse non essere più interessato ad averla con lui. In un contesto come quello che caratterizza la faida fra due popoli che rivendicano lo stesso lembo di terra non è difficile immaginare che rilevanza possa assumere un sentimento di appartenenza certa e certificabile, la necessità di sapere che il proprio codice genetico sfugga all’ambiguità che quella convivenza forzata potrebbe favorire.
Cosa accade dunque se Amira, tramutata su commissione distante di Nawar in una sorta di detective di tracce genetiche, ripercorrendo a ritroso la strada familiare si trovi a dover oltrepassare proprio quei margini imposti dall’appartenenza? Amira è israeliana. Lo confermano i vari indizi che trova sul suo cammino ed una luminosa quanto destabilizzante intuizione confermata dalla stessa Warda che avrebbe fatto qualunque cosa pur di nasconderlo, persino far credere a tutti di aver tradito Nawar con Hassan, il suo migliore amico, morto in guerra e dunque molto opportunamente non sottoponibile alla verifica del test genetico. In realtà Warda non ha mai tradito Nawar (“Ne sono certo, non capita tutti i giorni di inseminare una donna vergine” dirà il medico che l’aveva operata in quelle circostanze), ma si sarebbe volentieri sottoposta alla punizione corporale che i familiari avessero ritenuto più opportuna pur di evitare a sua figlia una vita esposta al costante pericolo di subire ripercussioni interne al suo stesso popolo (“Non sono pochi i palestinesi che vogliono vendicarsi degli israeliani” sosterrà Warda).
Ad essere entrato in contatto con il seme di Nawar prima che approdasse in clinica per essere esaminato ed utilizzato è stato non soltanto suo fratello Bassan, ma anche il secondino (israeliano) che l’ha scortato fuori dal carcere. Così, all’oscuro di tutti, in una di queste fasi intermedie del trasporto, sono stati scambiati i campioni di sperma per permettere a Warda di diventare madre nonostante l’ipogonadismo di Nawar. Tutti i personaggi del film sembrerebbero, in misure differenti, aderire e riconoscere l’importanza dell’appartenenza genetica come criterio identitario fatta eccezione, come si è già detto, per Zyad, ma anche per l’insegnante di Amira che tenta in tutti i modi di convincerla del fatto che la sua identità non dipenda dalla sua stirpe o dal luogo di nascita, che “anche se sei israeliana non rappresenti l’occupazione” e che “sei ancora la stessa Amira” nonostante lei sostenga di non esserlo più.
In realtà che “non sia più la stessa Amira” può essere considerato vero, lo testimonia il fatto che gli equilibri nei rapporti che la componevano e la intrecciavano a tutto il resto hanno subito alterazioni tali da necessitare una riconfigurazione complessiva che la colloca adesso all’interno di un piano relazionale ramificato in maniera strutturalmente diversa rispetto a quando si autopercepiva e si localizzava come “la figlia di un eroe”. Il suo modo di influire sul mondo è cambiato ed anche il modo in cui la realtà influisce su di lei. Eppure per altri versi è vero anche che “non è cambiata” nella misura in cui si consideri l’atto trasformativo come un’attività che non è mai venuta meno alla sua collocazione identitaria (nonostante lei non fosse disposta a riconoscerlo).
Proprio l’insegnante di Amira, che ha così a cuore la sua felicità al punto da comportarsi “come un padre” (come osserva con sospetto lei stessa durante la fase di ricerca delle sue origini) avanza l’idea secondo cui non sia importante l’origine genetica quanto quella pratico-educativa portata avanti soltanto da “chi ti ha cresciuta”. Amira obietta sostenendo di essere stata cresciuta da molte persone ritenendo in questo modo di mettere sotto scacco l’insegnante sull’urgenza di individuarne una che possa essere designata come sua causa primaria, ma questo non fa che radicalizzare la posizione dell’insegnante che arriva a sostenere che sia proprio questa plurivocità di influenze a rendere la ricerca di un’origine unitaria inattuabile, dunque inutile.
Nonostante ciò l’unica soluzione immaginata da Amira per riabilitarsi agli occhi della sua famiglia ed essere in qualche modo intimamente riammessa in seno al suo popolo è quella di compiere un gesto ancor più forte di quello che l’aveva messa al mondo: trovare ed uccidere il secondino israeliano che diciassette anni prima aveva scambiato i campioni. La facilità con cui prende questa decisione è dettata dall’amore disperato che nutre nei confronti di coloro che gli sono vicini ma non hanno perso (com’è invece accaduto a lei) il loro posto nel mondo, ma anche dal percepire quell’uomo dal volto sconosciuto come l’emblema dell’occupazione israeliana: un’entità esterna che ha invaso la sua famiglia destituendone l’integrità palestinese. La figura del secondino funge per Amira da involucro vuoto nel quale riversare le sue fantasie d’odio dentro cui è inevitabilmente cresciuta. Un uomo senza forma che acquisisce quella del nemico perfettamente funzionale alla sua necessità di divenire lei stessa quell’eroe che suo padre è stato e da cui non può più attingere per legittima estensione genetica.
È proprio quando questo involucro vuoto si riempie improvvisamente di una persona reale con la sua vita privata, una moglie, una figlia piccola, un insieme di buffi dettagli quotidiani pieni di commovente umanità che Amira non riesce più a farlo coincidere con l’immagine disumanizzata che aveva costruito per lui decidendo dunque di desistere dai suoi propositi di vendetta e di tornare indietro: questa decisione presa proprio sul confine militarizzato le costerà la vita per mano di militari israeliani. Questa sorta di “atto sacrificale” dettato da una certa forma di misericordia (non mancano analogie all’interno dell’intera pellicola, come risulta evidente, con la figura stessa di Cristo) sarà paradossalmente proprio quell’azione rivoluzionaria che le permetterà, suo malgrado, di essere riaccolta soltanto da defunta in maniera emblematicamente trionfale: non a caso il significato etimologico del nome “Amira” in arabo è “Regina”.
Amira. Regia: Mohamed Diab; sceneggiatura: Mohamed Diab, Khaled Diab, Sherine Diab; musiche: Khaled Dagher; interpreti: Tara Abboud, Saba Mubarak, Ali Suliman; produzione: Arab Media Network, Film-Clinic, Lagoonie Film Production, MAD Solutions, The Imaginarium; origine: Egypt
Jordan, United Arab Emirates, Saudi Arabia; durata: 96′; anno: 2021.
*Amira è stato presentato a Settembre nella sezione “Orizzonti” della Selezione Ufficiale della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia dal regista Mohamed Diab ed è il lungometraggio vincitore della 27° edizione del Medfilm Festival (tenutosi a Roma dal 5 al 14 Novembre) all’interno del concorso ufficiale “Amore e Psiche”.