
Cos’è un ambiente “mediale”? Accompagniamo con questo attributo uno spazio costruito dalle innumerevoli tecnologie che la realtà di oggi ci mette a disposizione, specificato storicamente da queste stesse. L’uomo che lo vive non è un uomo “tecnicamente dipendente”: nell’agire tecnicamente, grazie a quelli che con un’inversione chiasmatica possiamo definire media ambientali, assume una sua peculiare creatività. Su questo tema si fonda Ambienti mediali, la raccolta di saggi (pubblicata da Meltemi Editore nel 2018) a cura di Dario Cecchi, Martino Feyles, Pietro Montani. Gli scritti riprendono gli interventi presentati all’interno del convegno Interactive Imagination (Roma, 6-8 giugno 2016). Vi sono inoltre alcuni testi originali richiesti a studiosi che hanno preso parte attivamente a quelle giornate.
Come ben illustra Pietro Montani nella sua introduzione alla raccolta, il cambiamento del titolo (dedicato agli “ambienti mediali” e non all’”immaginazione interattiva”) è dovuto allo spontaneo confluire di tutti gli interventi, nessuno escluso, in un’analisi marcatamente spaziale, contestuale, comunitaria (e dunque anche politica) dell’interazione tra uomo e tecnica.
La raccolta si divide in quattro sezioni: si parte ponendo i presupposti epistemologici del discorso (fondamentalmente kantiani) nel delineare il ruolo di interfaccia dell’immaginazione tra intelletto e sensibilità e il carattere intrinsecamente misto di una realtà composta dalla sua stessa natura e da infrastrutture esterne da essa inscindibili che la riconfigurano costantemente; proseguendo si propone un’analisi più specifica dei già sopracitati media ambientali, che innervano benjaminianamente gli ambienti trasformando essi stessi in mediascapes e rischiando di produrre nel cosiddetto “antropocene” un contromovimento che controlla e anticipa le nostre azioni umane inquietandoci.
Vi è poi un “campionamento” delle diverse forme attraverso cui la tecnica si esprime, tutte manifestanti un complesso rapporto tra dentro e fuori, immagine interna ed esternalizzazione, sistematico ed extra-sistematico, che combatte la linearità in favore di un continuo e incalcolabile riassortimento inventivo delle regole in gioco (una rule-making creativity, modificando la celebre espressione chomskyana); infine, nell’ultima parte, gli autori si occupano più “tradizionalmente” di forme installative affondando tuttavia le proprie argomentazioni negli aspetti più squisitamente antropologici di queste, prendendo quello artistico come il campo più adatto alla sperimentazione e all’applicazione di nuove norme. Un campo che più che coltivare decostruisca gli assetti simbolici umani così da procurarsi gli anticorpi contro ogni tipo di “irrigidimento” a vantaggio di una sempre rinnovata plasticità.
Mi sembra che due siano gli aspetti fondamentali attorno cui ruotano pressoché tutti i saggi: il carattere radicalmente anticipatorio dell’azione immaginativa, che fa il suo ingresso nella manipolazione del reale ben prima che vi sia un preciso scopo, e il piacere del sentire la realtà carnalmente, muovendola apticamente e muovendosi all’interno di essa come esseri “locomotori” prima che dotati di un raziocinio. Ripercorrendo il cammino tracciato dal libro, arriviamo a concludere che i due tratti sono due facce della stessa medaglia, assolutamente complementari e sorprendentemente reversibili l’uno nell’altro.
Per quel che riguarda il movimento “anticipativo” della nostra facoltà immaginativa, descrivendo il procedimento di sussunzione del particolare sotto un universale, e le intuizioni spazio-temporali che lo accompagnano, Linda Palmer incita a portare più rispetto a ciò che ancora non è del tutto formulato, a quel kantiano “schematizzare senza concetto” che senza uno specifico fine esplora e connette il reale. Questa ricerca, che decentra le nostre facoltà e le abbandona al “libero gioco” in cui si comincia a sentire che qualcosa “torna”, qualcosa ci è familiare, andrebbe considerata secondo l’autrice essenziale. Anche Cecchi nel suo saggio, rifacendosi all’esperienza del “guardare-attraverso” garroniano, mette in risalto la libera mappatura della realtà esterna, in cui l’immagine interna che ci formiamo anticipa il risultato finito (il concetto), in uno stadio ancora duttile e vivamente elaborativo.
Persino in un ambiente semiotico non facciamo che fuggire da una grammatica fissata una volta per tutte per tuffarci in un’indeterminatezza semantica che ci richiede una peculiare “attenzione”, piuttosto che una specifica intenzionalità, un “modo in cui” piuttosto che un “ciò che”, anticipando gli indici semiotici, così come quelli estetici, la vera stabilizzazione delle tecniche. David Weinberger afferma che la previsione newtoniana è meno utile di quanto pensiamo, al contrario nella complessità dell’inter-operativo riusciamo a “fare più futuro” solo se ci abbandoniamo alla condizione in cui “tutto è prevedibile, salvo praticamente tutto”.
Del resto anche la pre-mediazione di cui ci parla Richard Grusin a proposito del terrore dei Big Data, del selftracking e della (da lui coniata) datamediation, non è qualcosa di troppo lontano da quello che stiamo cercando di dire. In una “dialettica del controllo” (come recita il titolo dell’ultimo testo di Stefano Velotti) in cui ci sentiamo monitorati h24 e pensiamo di poter beneficiare dell’unlimited solo cedendo all’espropriazione dei nostri dati, dovremmo pensare che i data non sono entità ontologicamente preesistenti: non sono parassiti che catturano la nostra identità alle nostre spalle, vivono dentro un complesso assemblaggio socio-tecnico in cui già sempre siamo immersi. La nostra vita ordinaria è mediata prima che vi intervenga una volontà autoritaria e veggente, la rete “normativa” e algoritimica del digitale ha sempre alla base un lavoro esplorativo individuale e primariamente umano che le fa da sottotraccia. Senza di esso, non funzionerebbe.
Cosa fa da anello di congiunzione tra il valore indiscutibile dell’imprevedibilità e di un “prima” in cui tutto ancora si sta scoprendo e tutto ancora può accadere, e il piacere aptico e motorio del “protagonista” di un ambiente mediale? Forse proprio il suo essere perlustratore ancora ignaro, sceso in campo con i suoi cinque sensi e la sua propriocezione prima che con la sua strutturata attività simbolica. Ce lo spiega bene Elisa Binda, quando nel descrivere il “ciclo di formazione dell’immagine” in Gilbert Simondon (il cui milieu associé è decisamente il precursore del nostro “ambiente mediale”), ci dice che la prima fase del ciclo è quella dell’anticipazione motoria: prima ancora della percezione vera e propria – poi trasformantesi in ricordo (simbolo, mondo interno) ed invenzione (fuoriuscita in un oggetto che retroattivamente può risvegliarci e farci riattivare il circolo) – è l’immaginazione ad intervenire sulla realtà. “L’immaginazione è più primitiva della percezione”, soggetto e oggetto si individuano reciprocamente a partire da uno schema prima di tutto corporeo.
Ben prima di concettualizzare ci muoviamo nella realtà: nel procedimento onto- e filo-genetico dell’essere umano, il punto di partenza devono essere i piedi (Pennisi) e non il cervello: il cervello segue piuttosto il movimento del corpo, vi si adatta, è la trasformazione in homo erectus che rende l’uomo abile ad esplorare immaginativamente il suo mondo, ad essere “interattivo”. La rivoluzione ossea cambia e sorregge la mente guidandola nelle sue attività senza ancora sapere perché, così come le tecnologie diventano protesi perlustrative (estensioni dei nostri sensi, nell’accezione di McLuhan) e si affidano ad una selezione naturale che decide se farle sopravvivere oppure no. Sulla scia di Merleau-Ponty, quello che si proietta nello spazio in cui si agisce sono le possibilità operative del corpo vivente (Feyles), al senso percettivo inizialmente muto si aggiunge solo in seconda battuta il significato (che sia la realtà semioticamente aumentata o che sia una memoria esterna tecnologicamente più avanzata), e tutto sommato, anche una volta giunta la “correlazione” a quel “di più”, il sistema sembrerebbe in grado di rimanere ancora aperto, malleabile, disposto all’imprevisto (forse è proprio questa prospettiva ottimista su un’infinita apertura a far parlare Don Ihde di “tecnologie morbide” da contrapporre ad “iscrizioni dure”).
Nell’ambiente ludico delle tecnologie digitali, molto del piacere sta nella gioia del manipolare lo strumento, nell’azione orgasmatica del vivere una realtà altra sul proprio corpo simulando la prossimità ad essa (Maiello), entusiasmarsi insomma in primo luogo da un punto di vista sensoriale e dinamico, quasi narcisistico (Carbone), che non ha ancora necessità di chiudersi in una mira. Il saggio di chiusura di Francesco Antinucci punta il dito esattamente sul carattere percettivo-motorio dell’uomo e sulla “human sensuality” (tangibilità, immediatezza, stimolo sinenstesico del suo atto) prendendo ad esempio la pittura di Rothko che invita lo spettatore ad “infilarsi” nel quadro o le possenti masse giottesche (sentiamo la loro forza e la loro pesantezza, siamo ancora distanti da un “know that”).
Come scrive Francesco Casetti, “perlustrare” vuol dire anche migrare da una forma all’altra, entrare nel flusso della provvisorietà e del passaggio da locale a globale, da vecchio a nuovo. La ri-territorializzazione di Deleuze e Guattari (o il ri-montaggio della realtà, per usare un termine più cinematografico), non può avvenire se non in uno spazio che si apre all’inedito fuori da ogni pianificazione vincolante. Ci si colloca in uno spazio di cui ci si vuole appropriare anche solo disponendosi fisicamente su un terreno, “andando alla ventura”, senza che intervenga necessariamente un agente intenzionale. In un ambiente intermediale il reale farà sempre resistenza (Borutti), tutto sarà precario e l’immaginazione sarà costretta a lavorare nelle fratture. Quelle stesse fratture che Bernard Stiegler chiama “ferite”, quando incoraggia ad abbandonare l’opera come lenivo pharmakon in nome di un’opera attiva che derealizzi i sogni per godere di un processo vitale di realizzazione, sempre in corso e mai suturato, che disautomatizzi e biforchi la realtà in svariate possibilità da prendere in esame.
Solo così si potrà avvertire la différance noetica di un soggetto attivo che operi criticamente e rischiosamente, assumendosi in prima persona la responsabilità di un’imprevedibile rottura “negantropica”. Perché un fatto sia afferrato wittgensteinianamente in immagine (Lo Piparo), perché dalla dimensione interna della Vorstellung si passi a quella pubblica ed esternalizzata della Darstellung – e anche lì un’immagine che si linguisticizza facendosi racconto rimarrà sempre un nodo borromeo impastato e impossibile da sciogliere a favore di una sola delle parti – si deve prima di tutto ricercare un’incorporazione (embodiment) in una realtà esterna (extended mind) che sia un’incorporazione affettiva, un’Einfühlung che ci metta anima e corpo nella realtà, anche se si tratta di realtà virtuale o aumentata.
Ecco perché l’installazione Carne y Arena del regista Iñárritu è tanto raffinata quanto problematica (Pinotti), per quel “Virtually Present, Phisically Invisible” che non permette all’experiencer di godere carnalmente dell’imprevedibilità dell’ambiente mediale per lui creato, di essere inter-attivo e non soltanto immerso. O ecco ancora perché non ci abitueremo mai allo stato straniante di “differita” di una conversazione Skype o di una partita di calcio guardata in due diversi posti nel mondo (Molino), perché vorremmo che anche la simultaneità fosse reale ed “interna” fino in fondo, e non guidata da un intelligente occhio esterno che la razionalizza e ne tesse a suo piacimento le sorti (nel caso di una diretta modificata un secondo prima che il satellite la faccia arrivare al telespettatore, ad esempio).
Un “testo” che si sta “scrivendo” deve sempre essere radicato in un con-testo ancora totalmente “in progress”, godibile proprio perché pellegrinaggio ancora senza mèta, “facente comunità” proprio perché “journey of feelings” (Diodato). Viaggio di emozioni, ma soprattutto di sensazioni: la scintilla che fa sì che un’esperienza apra una località condivisibile e dunque in questo senso “politica” (come nel caso delle installazioni di Studio Azzurro), è ancora una volta quella che apre il suo orizzonte ad una partecipazione diretta e itinerante, che provi piacere nel fronteggiare l’inaspettato.
Riferimenti bibliografici
D. Cecchi, M. Feyles, P. Montani, a cura di, Ambienti mediali, Meltemi Editore, Roma 2018.
S. Velotti, Dialettica del controllo, Castelvecchi, Roma 2017.