La mostra Ambienti 1956-2010 rappresenta il capitolo successivo del progetto espositivo Inside Other Spaces. Environments by Women Artists 1956–1976, avviato dalla Haus der Kunst di Monaco da Andrea Lissoni che esponeva opere delle artiste Judy Chicago, Lygia Clark, Laura Grisi, Aleksandra Kasuba, Léa Lublin, Marta Minujín, Tania Mouraud, Nanda Vigo, Tsuruko Yamazaki alle quali si sono aggiunte, al MAXXI di Roma, le opere di Micol Assaël, Monica Bonvicini, Kimsooja, Christina Kubisch, Nalini Malani, Pipilotti Rist, Martha Rosler e Esther Stocker. Cerchiamo di delineare un punto di vista da cui osservare la mostra a partire da una domanda: si ritrova un nesso fra arte degli ambienti e pratiche di artiste?

Per Lissoni e Pugliese aver scelto come campo di indagine la produzione di artiste ha significato tracciare una ipotesi di ambienti distanti dalla stabilità del monumento, i cui tratti distintivi sono “evenemenzialità e nomadismo”, inclini a porsi come rifugio e ricovero. Nell’ambiente il dispositivo costruttivo dominante è lo spazio, un campo energetico in cui qualcosa succede, campo d’azione, non di rappresentazione. In essi la moltiplicazione dei punti di vista mette in crisi l’attitudine prospettico-contemplativa, per cui la funzione del guardare si associa a quella dello spostarsi in uno spazio da parte del visitatore non più spettatore. Gli ambienti in mostra si modificano a ogni allestimento, mettono in questione non solo stabilità e oggettualità dell’opera, ma anche il rapporto fra interno ed esterno; implicano la mobilità dei punti di vista e la sollecitazione percettivo-sensoriale e ludica del visitatore che comporta una dimensione processuale ed esperienziale e, non ultimo, propendono verso una pratica artistica frutto di un lavoro collettivo (pensiamo al gruppo Zero e al Gruppo Gutai). 

Data la loro natura effimera e non stabile nel tempo e nello spazio, gli ambienti mettono in crisi canoni e convenzioni della storia dell’arte, fra cui la categoria di opera originale, quando viene allestita per la prima volta dopo la morte dell’artista, e di replica, quando viene ricostruita dall’artista stessa. Esporre opere/ambienti comporta affrontare problematiche complesse per cui la partecipazione diretta delle artiste al riadattamento e allestimento degli ambienti esposti è stata dirimente in quanto loro stesse, riallestendole (e il termine pertiene alla pratica teatrale) si sono poste di fronte all’operazione non in modalità “conservativa”, ossia ripristinare un originale che non c’è, quanto in termini di progetto da realizzare.

Marina Pugliese e Andrea Lissoni fondano la categoria di ambiente/environment, su una genealogia nordamericana, riferendosi al movimento Light and Space, ad artisti come James Turrel e, specificamente, al pensiero di Allan Kaprow (Environment, Assemblage & Happenings, New York, 1966): «Environments must be walked into […]. In any event, a fuller involvement with actual space is important […] expanding the work, until it fills an entire space or evolves one, thus becoming an environment». Il recupero che la mostra propone del concetto di environment coinvolge una critica nei confronti del più accreditato termine installazione, che incomincia a essere utilizzato verso la fine degli anni ’70, ossia con l’emergere delle installazioni video a circuito chiuso e produce un effetto narcotizzante del termine environment con conseguente marginalizzazione delle occasioni espositive.

Il percorso temporale che le opere attraversano, dal  1956 al 2010 – mezzo secolo –, non viene marcato con passaggi “epocali“ fra i diversi decenni (dall’analogico al digitale) in quanto i diversi ambienti esposti compongono un continuum con modulazioni, ma senza fratture, in cui esaltate sono materie quotidiane, come stoffa, lana, piume, vetro, legno, specchio, nylon, plastica piuttosto che dispositivi tecnologici o materiali nobili come metallo o marmo. In questo senso gli ambienti sono opere fragili oltre che non stabili nel tempo, in quanto i materiali di cui si compongono sono agli antipodi di quelli della scultura o del monumento, destinato a durare attraverso i secoli, per cui le raccomandazioni rivolte ai visitatori sono di aver cura, predisporsi ad abitarle con attenta vigilanza per non manometterle e assecondarle rispetto alle differenti posture che richiedono.

Infatti, il visitatore non conosce in anticipo a quali criteri conformarsi – non è solo la vista coinvolta – come orientarsi per poterle “abitare” in modo proprio: muovendosi, toccandole, attraversandole, in posizione eretta o anche strisciando. Utopie di Lucio Fontana e Nanda Vigo, ad esempio, predispone un ambiente soffice in cui il visitatore può sdraiarsi. Da qui l’enfasi che i commentatori pongono sulla particolare forma di partecipazione che la mostra richiede al visitatore: non quella intellettuale basata sulle informazioni storico-critiche fornite da didascalie e testi esplicativi, ma l’esperienza fisica come forma di conoscenza

Quali sono le visioni del mondo che queste opere prospettano al visitatore? Martha Rosler, If You Lived Here…, tocca questioni sociali come l’emergenza abitativa. Nalini Malani, Alleyway, Lohar Chawl, mette a confronto il quartiere popolare di Lohar Chawl, dove l’artista vive e lavora, con il quartiere signorile di South Mumbai. Alcuni ambienti  sono focalizzati a stimolare la percezione del visitatore, come Vento di Sud est (1968) di Laura Grisi, che introduce in una stanza buia la macchina del vento che investe con le sue raffiche il visitatore. We used to know di Tania Mouraud colpisce con il suono, la luce e il calore. A casa é o corpo di Lygia Clark è un percorso sensoriale che fa rivivere l’esperienza del concepimento e della nascita; Spectral Passage (1975) di Aleksandra Kasuba invade lo spazio con forme circolari rivestite di stoffa colorata che rimanda all’arcobaleno; Con To Breathe di Kimsooja rende la luce e il riflesso componenti essenziali dello spazio. ¡Revuélquese y viva!(1964) di Marta Minujín è un bric brac di imbottitura sbilenca di cui si esalta la fattura volutamente traballante e inelegante, come di cosa fatta per gioco, come Feather Room (1966–2023) di Judy Chicago, che ci fa entrare in una stanza riempita con piume d’oca. Sono forme morbide, colorate, di tessuto, allegre, affatto minacciose, eccessive, fluttuanti, risonanti, mostrano una attitudine al gioco e sono spazi in cui si può accogliere qualcosa o qualcuno.

Gli ambienti costruiti con immagini in movimento come il video di Marta Minujín, La Menesunda (1979), il film di Maria Nordm FILMROOM EXHALE 1967 – PRESENT (1967) non sono “accoglienti”, mentre Sip my Ocean ( 1996) di Pipilotti Rist, con musica rilassante e immagini di corpi, oggetti che navigano nell’acqua (topic dell’immagine elettronica) con colori tendenti al pastello riesce ad avvolgere il visitatore e a trattenerlo come un massaggio decongestionante. Forse l’opera più mirabolante dell’intera mostra è The Bird Tree di Christina Kubisch che ha disegnato su una superficie un grande albero composto da cavi elettrici che permettono, indossando delle cuffie, di ascoltare canti di uccelli di diverse specie registrati in tutto il mondo.

Dunque per tentare di rispondere alla domanda da cui abbiamo avviato l’osservazione sulla relazione fra artiste e ambienti, in sintesi evidenziamo: il tratto ludico, la natura fragile, le forme plastiche che racchiudono e avvolgono (e quindi proteggono), l’impermanenza, la mancanza di un originale, l’investimento fisico e integrale del visitatore. 

Riferimenti bibliografici
M. Pugliese, A. Lissoni , F. Stocchi, Ambienti 1956-2010. Environments by Women Artists II, Quodlibet, Macerata 2024.
R. Schechner, La cavità teatrale, De Donato, Bari 1968.

Ambienti 1956-2010. Environments by Women Artists II, a cura di Andrea Lissoni, Marina Pugliese, Francesco Stocchi, MAXXi, Roma, 10 aprile 2024 – 20 ottobre 2024.

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