Se “antologia” indica, innanzitutto, una selezione di fiori, un nuovo terminus technicus, che rimandi all’entomologia, andrebbe coniato per designare le raccolte di saggi di Roberto Calasso. Ancor più delle monografie, queste testimoniano il suo gusto per la varietà delle manifestazioni culturali e, al contempo, il desiderio di ricondurle ai confini esatti della geometria, nel perimetro catafratto di una prosa salda, inscalfibile. In ciascun contributo, lo sguardo e la parola del critico penetrano, come uno spillo, i propri oggetti fragili, in un misto di grazia e crudeltà, fissandoli in espressioni e posizioni talvolta innaturali eppure, proprio per questo, assolutamente rivelatorie. Può capitare, ad esempio, di incontrare, in un saggio su Kafka, lo scrittore praghese allo «Jungborn, istituto naturista e nudista», intento a cogliere, «insufflato» nei corpi altrui, «un presagio di America» (Calasso 2004, p. 96); o avviene che, in una «lettura vedantica» di Rear Window (1954), la faccia di Hitchcock appaia all’autore, «protetta dall’imponente baluardo del suo labbro inferiore, incastonata nella cornice proliferante di un tempio indù» (ivi, p. 60).

Di simili emblemi, misteriosi ed evocatori, che sollevano l’eleganza schiva della prosa critica di Calasso alle vette della letteratura, è tutto puntellato anche Allucinazioni americane. Questo con i saggi sopra citati e con il libro che li ricomprende, La follia che viene dalle ninfe (2004), intrattiene un rapporto profondo, gemellare. Non solo, infatti, le figure che lo animano sono in parte le stesse – tornano Kafka e Hitchcock, e i contributi su quest’ultimo e sul guanto di Gilda vi sono ristampati inalterati –, ma il presentimento americano, connesso lì agli ospiti del sanatorio, si fa, ora, pensiero dominante.

L’ultima sezione del libro, non a caso, è dedicata proprio ad America o Il disperso, uno dei romanzi incompiuti della “trilogia della solitudine” di Kafka. Questi, in una lettera del 1913, racconta di come, pur andandoci «molto di rado», conoscesse «per lo più a memoria quasi tutti i programmi settimanali di tutti i cinematografi»: il suo «bisogno di divertimenti» si saziava di fronte ai cartelloni pubblicitari (Kafka 1972, pp. 331-332). A partire dai manifesti lo scrittore girava un personale film interiore. Da un processo analogo, sostiene Calasso, nasce America. Con quest’opera, infatti, Kafka, che pure non vi era mai stato, voleva scrivere della New York «modernissima», sognata sul libro, pieno di fotografie, del reporter Arthur Holitscher. Si tratta, d’altronde, di un romanzo intimamente cinematografico: non solo perché Karl Rossmann, il protagonista, entrando nel nuovo continente, vi rimane intrappolato «come vagando sulla superficie di una pellicola» (Calasso 2021, p. 122), ma, soprattutto, perché l’episodio in cui questi, nel Grande Teatro di Oklahoma, scorge «centinaia di donne, vestite da angeli», intente a suonare, quasi fossero uscite da un film di Busby Berkeley, «trombe dorate, lunghe e scintillanti» (Kafka 2019, p. 569), rappresenta l’atto di nascita del musical.

Che America intrattenga una parentela segreta col cinema, lo aveva suggerito, in realtà, già Max Brod, affermando che «ci sono scene in questo libro […] che ricordano irresistibilmente i film di Chaplin, ma film di Chaplin così belli come non ne sono stati ancora realizzati» (Brod in ivi, p. 7). Calasso, tuttavia, evita, senza dubbio volutamente, di riportare questo giudizio. La polemica nei confronti di ogni «visione edulcorata del Disperso» (Calasso 2021, p. 129) è infatti rivolta, con ogni probabilità, proprio contro Brod, convinto che, nel finale del romanzo, il «giovane eroe avrebbe trovato, come per una celeste magia, un mestiere, la libertà, un sostegno, perfino la patria e i genitori» (ibidem). Per Calasso, invece, America è «il libro più disperato di Kafka», destinato a chiudersi tragicamente, come Il processo: «Rossman e K., l’innocente e il colpevole, alla fine entrambi ammazzati per punizione, l’innocente con mano leggera, più spinto da parte che abbattuto».

Qualcosa di questo nesso profondo, a dispetto delle apparenze, si ritrova anche nel rapporto tra Rear Window e Vertigo (1958), la cui analisi costituisce il centro del libro. Si tratta, infatti, di «due film gemelli», dal momento che ciascuno, in forma diversa, finisce per insinuare il sospetto di non essere altro che un’allucinazione, «un processo mentale, condotto attraverso mezzi visivi». Nella prima inquadratura di Rear Window, si sollevano le tende delle varie finestre ed è «come se la cortina di opacità che normalmente avvolge la mente e la rende inconsapevole di se stessa a poco a poco si dissolvesse». Ad apparire, allora, non è il mondo, «ma – afferma Calasso – il cortile come un edificio mnemotecnico, dove la parete di mattoni sbiaditi fa da supporto ai loci» (ivi, pp. 85-86).

Il legame tra il cinema e la mnemotecnica, l’arte di ricordare le cose disponendole in edifici mentali, appare, in effetti, dei più viscerali. L’ars memoriae forgia, a partire dai fosfeni – i «parenti morganatici della coscienza» (ivi, p. 80) –, imagines agentes, immagini capaci di imprimersi nella mente o, come avrebbe detto Pietro da Ravenna, giurista del tardo Quattrocento, di “eccitarla”. Questi, in un trattato in cui svela i segreti della propria memoria prodigiosa, dopo aver confessato come, nelle stanze del proprio palazzo interiore, fosse solito collocare «delle fanciulle formosissime» (Rossi 1983, p. 53), suggerisce, per ricordare, ad esempio, la parola panem, di immaginare una ragazza nuda che, con il piede destro (segno che indica l’accusativo), sfiora una pagnotta. Quanto più ambigue le immagini, tanto più intensa e duratura la traccia mnestica che esse lasciano – di questo principio, soprattutto, farà tesoro il cinema.

Già la Rhetorica ad Herennium, d’altronde, il più importante testo di mnemotecnica della storia occidentale, propone, per memorizzare i dettagli di un processo per omicidio, un’immagine che non sfigurerebbe nel più onirico dei film di Lynch: «Immagineremo coricato a letto l’uomo di cui si tratta […], e accanto al letto collocheremo l’imputato con una tazza nella destra, tavolette nella sinistra e all’anulare della mano sinistra i testicoli di un caprone. In questa guisa avremo nella memoria l’uomo che è stato avvelenato, i testi e l’eredità» (Yates 1993, p. 12). Solamente, il cinema, distaccandosi dalla tradizione retorica, libera le immagini dal vincolo di un significato univoco e predeterminato. Non a caso, Calasso si riferisce a Bruno, un pensatore per il quale, sulla scia di Lullo, la mnemotecnica non è più solo ars memoriae, ma un vero e proprio strumento conoscitivo, di stampo magico. Al riferimento bruniano se ne potrebbe aggiungere, in questo senso, un altro, implicito nella lettura del cortile di Greenwich Village come “teatro della mente”: quello a Giulio Camillo, autore de L’idea del theatro (1550), uno dei più grandiosi progetti di edificazione interiore del Rinascimento.

Se nel caso di Rear Window l’allucinazione costituisce la cornice in cui si svolgono le vicende, in Vertigo essa monta come una febbre. Si tratta, infatti, di un film dedicato alla vita mobile e imprendibile del figmentum, dell’immagine-Madelaine, che, plasmata due volte, prima come copia della moglie di Gavin e poi come copia di se stessa sul corpo di Judy, infesta, come uno spettro, l’immaginazione alterata del protagonista. D’altronde, come notò Truffaut, il gioco di sostituzioni che vediamo in atto nel film, è lo stesso che dovette presiedere, effettivamente, alla sua realizzazione. In Vertigo, concepito per Vera Miles ma riadattato poi per Kim Novak, non solo un uomo «si sforza di ricreare la prima immagine quando il destino lo rimette di fronte alla scomparsa», ma «un regista obbliga un’attrice che sostituisce un’altra a imitare quest’ultima» (Truffaut 2014, p. 425). Scottie, il “maniaco” che costringe Judy a vestirsi e pettinarsi come Madelaine, perché “vuole andare a letto con una morta”, è, per un accidente forse non del tutto fortuito, l’esatto rispecchiamento di Hitchcock stesso.

Come trapela dalla conclusione del saggio su Rear Window e il pensiero indiano, un filo sottile unisce questo libro all’opus magnum di Calasso, quell’opera-muraglia che lo scrittore ha costruito, indefessamente, per oltre trent’anni, da La rovina di Kasch (1983) sino a La tavoletta dei destini (2020). Sotteso al mito dell’America si rivela infatti un altro mito, quello dell’Occidente, il quale, si suggerisce, non può conoscersi a pieno se non attraverso le lenti stranianti dell’altrove, sia questo geografico o temporale. È solamente guardandosi da lontano che l’Occidente, abituato a pensarsi sempre, in chiave ironica e prosastica, come disfacimento e decomposizione, può cogliere le qualità autenticamente liriche e metafisiche delle sue allucinazioni, anche di quelle più recenti, che si esprimono nel cinema. Solo alla luce di dèi non ancora tramontati, possono brillare veramente, sullo schermo, le dive.

Riferimenti bibliografici
R. Calasso, La follia che viene dalle ninfe, Adelphi, Milano 2004.
F. Kafka, Lettere a Felice, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972.
Id., America o Il disperso, a cura di U. Gandini, Feltrinelli, Milano 2019.
P. Rossi, Clavis universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Il Mulino, Bologna 1983.
F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, a cura di G. Ferrari e F. Pititto, Il Saggiatore, Milano 2014.
F.A. Yates, L’arte della memoria, Einaudi, Torino 1993.

Roberto Calasso, Allucinazioni americane, Adelphi, Milano 2021.

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