Si può essere ancora religiosi dopo la morte di Dio? E continuare a fare filosofia orfani della Verità? Se per il pensiero contemporaneo sono solo interrogativi ingenui, ascrivibili al “rozzo” senso comune dei non addetti ai lavori, vi fu un pensiero filosofico che di questi interrogativi ne avvertì la scossa profonda e dalle sue crepe si fece attraversare; un pensiero costretto a ripensare radicalmente il rapporto tra Dio e verità, rapporto che per l’intera modernità filosofica era stato concepito nei termini dell’identità assoluta.  

Sono questi interrogativi ad animare il dialogo tra i filosofi interpellati dai saggi che Valeria Pinto raccoglie nella sua nuova opera Il rovescio dell’esperienza: filosofi dell’oltrepassamento di un’idea di fede razionale come assenso a una verità universale che trova il suo sostegno fondamentale nel «tenere per vero» di quella coscienza che fu non solo la grande invenzione del Cristianesimo ma anche il lascito più solido della filosofia moderna, a partire dal cogito cartesiano.

Eccezion fatta per Schleiermacher, Solger e Kierkegaard, pensatori che già nel XIX secolo hanno dato risposte post-moderne alla domanda sul divino, pervenendo a una visione inedita dell’incontro tra finito e infinito, Pinto dà voce ai protagonisti del dibattito accademico tedesco di inizio Novecento (Troeltsch, Heidegger e in particolar modo Simmel). È la filosofia che sorge nell’età di mezzo tra due catastrofi: l’annuncio della morte di Dio e il risorgere della sua «ombra» in quel mito del Terzo Reich che già si prepara nella «caverna» della Grande Guerra. È la filosofia del corpo a corpo con una crisi del cristianesimo che è solo una delle facies più visibili del tramonto della modernità occidentale; la filosofia chiamata a interrogarsi su una crisi dell’esperienza religiosa che è innanzitutto crisi dell’esperienza in senso lato (Benjamin 1933).

In questa filosofia il problema della verità della religione converge necessariamente nel problema della verità nella filosofia e in quello dello statuto della filosofia stessa all’indomani del «terremoto nietzschiano» (Pinto 2024, p. 42). Perché, se dopo la morte di Dio non è certo più in questione la verità delle verità di fede, quanto la fede nella Verità, è innanzitutto la filosofia chiamata a difendersi dopo quel terremoto e a ridefinire le sue categorie fondamentali. 

A quale ordine appartiene la verità filosofica? Come stabilire la verità di un pensiero? Come definire un filosofo che accoglie nel suo sistema l’errore? Forse un pessimo filosofo, un mistificatore, un impostore o – ancor peggio – un dilettante che non possiede nemmeno l’ardire della malafede. Eppure nella storia del pensiero non vi è spazio per i dilettanti: o si è “grandi” filosofi o non si è filosofi affatto. Ma perché poi, tra tutti i tipi umani, proprio al filosofo sembra non essere concesso il privilegio di una comoda mediocrità? Quali aspettative siamo ancora oggi tentati di riporre in quell’intreccio peculiare di vita e pensiero che pone capo alla sua opera? Se come insegna Parmenide, filosofo è colui che si incammina sulla strada della luce, dell’essere, e l’errore è invece la via del buio, del non essere, allora, pena cadere in contraddizione con sé stessa, pena abdicare a quella concezione ieratica del suo ruolo, la filosofia non può accogliere tra le sue schiere un “filosofo del falso”: un filosofo del falso semplicemente non è

Eppure, all’indomani del discorso nietzschiano e di quello kierkegaardiano, che sfondano il confine della certezza del sapere per inoltrarsi nel possibile dell’invenzione poetica, un criterio dell’aderenza al vero come oggetto, non può essere più il “trono” del Regno dei Cieli alla cui destra si pongono i “buoni” e alla sinistra i “cattivi”: i filosofi e i non filosofi. Entra inevitabilmente in gioco un sovvertimento di un’idea di filosofia come ricerca di una Verità assoluta, inerte e indifferente all’esistenza, verità valida in ogni tempo, per tutti e perciò per nessuno (ivi, p. 30), ricerca che ha accomunato per lungo tempo realismi e idealismi, appiattendo da un lato la ragione filosofica sul modello di una razionalità scientifica e dall’altro il problema dell’incontro col divino sull’astratta comodità del discorso teologico.

Entra in gioco con questo sovvertimento una filosofia che si apre al forse, probabilmente parola poetica per eccellenza. È proprio il “forse” il perno attorno cui si attua quella rotazione che scardina l’alternativa vero/falso e liquida a monte l’eterna querelle sul relativismo. Filosofia del forse è per Pinto quella di Simmel, che riconosce che «le incertezze, le inconclusioni, i vicoli ciechi del pensiero non costituiscono propriamente un’obiezione alla verità» (ivi, p. 128); piuttosto svolte che ne «ridisegnano la domanda in radice», che interrogano il senso della verità stessa, secondo la nota formula della Genealogia della morale: perché la verità piuttosto che l’errore? (ivi, p. 139).

Se è stato il pericoloso coincidere di Dio e verità a condurre a quel dei-suicidio che non è altro che il risultato del lungo stillicidio perpetrato dal pensiero moderno e se la religione è andata incontro a condanna certa nel momento in cui da esperienza si è tramutata in scienza, la posta in gioco è allora abbandonare una religione del dogma a favore di una religiosità dell’esperienza. Esperienza può definirsi il compimento della totalità nell’unità della vita individuale di Simmel, ma anche l’esperienza paradossale e in un certo senso im-possibile della decisione per la trascendenza di Kierkegaard. Si tratta di prospettive antitetiche: una votata all’immanenza e l’altra che proprio con l’immanenza desidera rompere per far irrompere nell’esistenza il radicalmente nuovo. Cristiani non si nasce, si diventa, e non sempre assecondando il movimento spontaneo del divenire sé stessi, ma anche in lotta con la legge della necessità interna: questo il volto tragico del cristianesimo “contro natura” di Kierkegaard. 

Si tratta tuttavia di proposte accomunate entrambe da un superamento di una concezione di fede come mera credenza nell’oggettività del dogma e da una concezione nuova del soggetto umano, lontana dall’universalismo astratto del pensiero moderno.

Forse si può immaginare una religiosità dopo la morte di Dio, ma soltanto a patto di passare dall’“anonimo” soggetto cartesiano, in cui la verità si manifesta nella sua chiara evidenza alla coscienza, alla soggettività dell’esistenza concreta, da un’idea di Verità assoluta alla kierkegaardiana «verità per me». O, ancora, a patto di riguadagnare un «chi dell’esperienza religiosa» che sia vera singolarità, individualità irriducibile all’universale umano, ma anche a quell’infinito cui, nell’ottica di una «mistica negativa», si accede soltanto sacrificando il finito sul suo altare (ivi, pp. 100-101). 

forse è proprio una forma di religiosità autentica che ci impone di liquidare Dio per riscoprire la devozione alle cose. Il punto dove religione e filosofia si incontrano può essere allora proprio in un concetto di «incontro» che si sostanzia nella «mistica delle cose singole», nella «mistica dell’adesione al principium individui», summa del pensiero di Schleiermacher. Perché se ci può essere una religiosità filosofica capace di salvare la filosofia non meno della fede da quella crisi innescata dal cortocircuito Dio-verità-coscienza, essa si può ritrovare nel coraggio di non disertare «l’incontro compromettente con la cosa» (ivi, p. 144), nel coraggio di contaminarsi con l’individuale, con la singolarità, in quella vocazione etica del filosofare, presente già in Platone: la salvezza dei fenomeni (Moroncini 1984).

E una filosofia dell’incontro, che ri-volge il proprio sguardo al finito, una filosofia che, per dirla à la Georges Didi-Huberman, guarda al timido baluginare della «lucciola» piuttosto che alla grande «luce dell’orizzonte», può riscoprire non solo la sua vocazione religiosa, ma, ancor di più, la sua intrinseca vocazione poetica.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Esperienza e povertà in Opere Complete V, Einaudi, Torino 2003.
G. Didi-Huberman, Come le lucciole, Bollati Boringhieri, Torino 2010.
S. Kierkegaard, Diario, Rizzoli, Brescia 1983.
F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1984.
F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, Milano 1977.
B. Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Cronopio, Napoli 2009.
V. Pinto, Il rovescio dell’esperienza, Cronopio, Napoli 2024.

Valeria Pinto, Il rovescio dell’esperienza. Confronti filosofici, Cronopio, Napoli 2024.

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