Quest’anno, grazie a Progetto Me-Ti, è stata pubblicata in Italia la traduzione di Alianzas rebeldes. Por un feminismo más allá de la identitad. Il volume nasce da un confronto avviato nel 2019, prima a Madrid, in occasione di un incontro, poi a Barcellona, durante una conferenza. In entrambe le occasioni, un centinaio di persone legate da un impegno militante si è riunito per discutere delle possibilità organizzative della lotta, di fronte ai rischi identitari presenti tanto a destra quanto a sinistra. La pandemia ha poi interrotto la prosecuzione di questi incontri, che sono tuttavia confluiti nel libro, pubblicato nel 2021 in Spagna.
La scelta di tradurre questo volume in Italia si inscrive nello stesso orizzonte politico da cui era scaturita la versione spagnola: quello della “contaminazione” come pratica di trasformazione individuale e sociale insieme. Progetto Me-Ti nasce come iniziativa editoriale indipendente: la prima traduzione realizzata, Ne*ri con le pistole di Robert F. Williams, ha segnato l’avvio di un cantiere politico che intreccia, nelle sue intenzioni, la pratica editoriale con l’elaborazione di nuove forme di organizzazione collettiva.
Il contesto editoriale che dà vita a questa traduzione si lega quindi alle questioni sollevate dai testi raccolti nel volume: l’eterogeneità di prospettive e percorsi costituisce lo sfondo su cui si dipanano riflessioni che hanno il comune intento di ripensare le modalità odierne della lotta politica, mettendone in luce le zone d’ombra e al contempo facendo della tensione il segno propulsivo di dibattiti trasformativi. Se è vero che «abbiamo troppo da guadagnare» (Me-Ti 2025, p. 19), il conflitto diventa per noi uno spazio da abitare.
Tra i testi contenuti nel volume, da quello di Paloma Uría Ríos, che ricostruisce genealogicamente alcune divergenze interne al femminismo spagnolo e riflette sui rischi delle derive identitarie, a quello di Nuria Alabao, che, a partire dalla rivendicazione del rapporto tra produzione e riproduzione sociale, afferma la necessità di un femminismo capace di superare le logiche neoliberali, emerge un filo comune: il bisogno di costruire allenze ribelli come fronte collettivo di resistenza. Dinanzi alle derive autoritarie che su scala globale stanno rafforzando politiche reazionarie e conservatrici, è necessario interrogare gli strumenti di cui disponiamo per far fronte alle forme strutturali di dominazione che attraversano le collettività.
Le «promesse di ritorno all’ordine» (p. 52) delle destre, si poggiano oggi su una strenua difesa dei confini: la chiusura delle frontiere è l’espressione di strategie politiche e sociali volte a tutelare una presunta omogeneità comunitaria, fondata su categoriche norme di riconoscimento sociale. La costruzione di possibili alternative è la principale scommessa a cui sono chiamati oggi i movimenti sociali. Il paradigma neoliberale ci ha lasciato in eredità una frammentarietà identitaria che si riflette, per quanto in maniera diversa, sia negli esistenti progetti politici delle destre che in quelli delle sinistre:
Quando scompare un orizzonte condiviso – un legame che trascende le differenze –, scompare non solo la possibilità di comprendere l’altro, ma anche il senso stesso del parlare, del discutere e del trovarsi in disaccordo. Se le differenze diventano abissi incolmabili e ci consideriamo irrimediabilmente nemici – radicalmente e insormontabilmente estranei l’uno all’altro – non abbiamo, ovviamente, nulla di cui parlare (p. 53).
Il mantenimento di un’identità fissa e immutabile come soggetto del femminismo impedisce l’instaurazione di legami trasversali: la perpetuazione di logiche neoliberali individualiste si intreccia infatti a doppio filo alla cristallizzazione di un soggetto politico chiuso e omogeneo. Andare oltre i confini identitari permette di superare discorsi autoreferenziali, rendendo le differenze punti di ancoraggio per una modificazione radicale della realtà. Il depotenziamento della carica trasformativa del femminismo va di pari passo a un ripiegamento del movimento su di sé: la chiusura identitaria determina una frammentazione politica che ostacola la creazione di un movimento collettivo, non riconoscendo l’intreccio tra più rapporti di oppressione e dunque tra soggettività eterogenee. La prossimità tra le lotte deve produrre alleanze trasversali, in cui l’identità come crocevia di multipli rapporti di potere diventi luogo di resistenza trasformativa rispetto alle logiche dominanti. Se le logiche neoliberali hanno orientato alcune pratiche femministe verso la produzione degli interessi di poche, una loro contro-attualizzazione mira invece a rovesciare la struttura sociale nella sua totalità, a partire da un femminismo radicato dal basso e attento alla materialità dei rapporti di oppressione che si dispiegano nella concretezza del reale. Guardare al nesso tra produzione e riproduzione sociale (pp. 229-230), significa interrogare il legame resistibile tra subordinazione delle donne e capitalismo – e non solo.
Ma abbiamo anche il compito di organizzare la forza collettiva che incarna questo progetto storico; per fare questo non si può che partire da un femminismo costituito da un soggetto plurale. Un soggetto trasversale, nel senso che può riunire le diverse lotte in corso: quelle per la libertà sessuale e di genere, ma anche quelle articolate sulla base della redistribuzione della ricchezza, per il diritto alla casa, in difesa dei servizi pubblici, per il reddito di base universale, per i diritti di tutte le lavoratrici – comprese le lavoratrici del sesso. Insomma, tutte misure che, mettendo le condizioni di vita al centro della battaglia, aumentino l’autonomia delle donne, e di tutte le persone, del 99% della popolazione e non solo delle élite, e la nostra capacità di autodeterminazione. (pp. 230-31)
Inoltre, il privilegio epistemologico (p. 59) attribuito ad alcuni soggetti trasforma i movimenti in spazi autoreferenziali e l’alleanza in utopia immaginaria. Quando Wendy Brown parla di «fondazionalismo reazionario» (ibidem), intende criticare il nesso eziologico tra la donna in quanto categoria identitaria e un determinato modo di interpretare la realtà. Ciò non significa negare la storia personale e collettiva di subordinazione millenaria, bensì riconoscere come l’assunzione di questo nesso causativo risulti politicamente fallimentare, poiché finisce per cristalizzare le identità in forme chiuse in sé stesse, attribuendo inoltre la legittimità di parola solo alle “vittime”.
Ne deriva la riattivazione di un modello che il femminismo intende invece superare, ovvero quello della santificazione della vittima. Interrogarsi sulle possibilità trasformative del dolore, al contrario, significa farne un luogo di alleanze possibili, e non destino inevitabile. Oltrepassare il binomio identità-vittima implica non solo ripensare il femminismo come movimento collettivo, ma anche immaginare nuove prassi politiche per oltrepassare insieme quello stesso dolore, superando «gli steccati identitari e i confini assegnati dalle relazioni patriarcali di potere» (p. 71).
La trasformazione del trauma e della colpa non in destini immutabili, bensì in spazi a partire dai quali ripensare un «un nuovo senso sociale» (p.103), si intreccia al superamento del populismo punitivo, nella prospettiva di una giustizia femminista intesa come prassi politica che, davanti ai limiti e ai fallimenti della giustizia penale, sappia interrogarsi su forme resistenti di risoluzioni a problemi che sono collettivi, non individuali.
Di fronte all’ascesa del neoliberismo, nella sua veste più autoritaria, e al moltiplicarsi della violenza patriarcale, la giustizia femminista deve fornirci una nuova grammatica per la lotta. Una presa di coscienza collettiva per prendersi cura delle vite e dei corpi che l’imperativo patriarcale afferma non abbiano valore. Un modo di relazionarsi che converte e trasforma l’abbandono in ascolto, l’isolamento in reti di sostegno e i conflitti e le differenze in crescita personale e collettiva. (ivi, p. 110).
Concepire «l’identità come progetto, come qualcosa da costruire, non come un dato o un’essenza» (p. 235), è premessa fondamentale per un progetto politico orientato a trasformare la realtà sociale in maniera femminista e materialista. Il superamento dell’identitarismo nei movimenti si intreccia a doppio filo alla creazione di prassi politiche alternative che guardino alle differenze come motori propulsivi di trasformazione. Al depotenziamento del femminismo, c’è la possibilità di rispondere con contro-attualizzazioni strategiche: l’«intersezionalità materialista» (p. 233) di cui parlano Lucia Amorosi e Viola Carofalo nella postfazione del libro, è una risposta politica e personale quanto mai necessaria.
Guardare la coesistenza tra multipli rapporti di oppressione significa oltrepassare le logiche individualiste e interrogarsi sui rapporti di potere che determinano i processi di alterizzazione nella realtà sociale; «il capitalismo va letto come sfera di vita […] che si nutre di condizioni non-economiche», nella misura in cui forme di dominazione differenti si dispiegano materialmente e si rafforzano reciprocamente, a livello globale. La risposta a forme di sfruttamento che toccano tutte le dimensioni dell’esistenza non può perciò prescindere da una dimensione che sia collettiva e transnazionale.
Ad oggi non esiste una formula da seguire, però una cosa la sappiamo di sicuro: il percorso non è lineare, è ricolmo di contraddizioni; queste ultime possono fungere da ostacolo ma anche da contro-altare per nuove «alleanze difficili» (p. 244), senza le quali non ci può essere né rischio né trasformazione. Con i piedi tra il vecchio e il nuovo mondo, possiamo dire che un corpo collettivo capace di trasformare il dolore in risposta politica plurale esiste: le recenti mobilitazioni per Palestina ne sono il sintomo, così come lo è lo spirito militante che anima la traduzione stessa di questo libro.
Alleanze ribelli. Per un femminismo oltre l’identità, traduzione e apparato critico a cura di Me-Ti, Me-Ti, Napoli 2025.