Il grande sonno (Hawks, 1946).

Pubblicato nel 1981, nel momento in cui il decostruzionismo sembrava aver conseguito, almeno nel mondo angloamericano, una solida egemonia culturale, L’inconscio politico di Fredric Jameson – tradotto in italiano solo nove anni dopo per i tipi di Garzanti e oggi non più disponibile sul mercato – ribadiva la necessità di legare la rappresentazione narrativa alle dinamiche più profonde dello spazio sociale. Lo faceva con un invito alla dialettica e alla storicizzazione che, in tempi di dissoluzione delle grandi narrazioni e di consolidamento del privatismo, appariva provocatorio.

Con il motto “storicizzare sempre!”, inteso quale imperativo onnistorico e imprescindibile, Jameson tentava di rimettere in circolo un’idea di interpretazione letteraria ancorata ai codici della modernità, non senza trascurare le innovazioni dei metodi particolari o delle più recenti tendenze della teoria culturale: scorgeva però nella lettura politica, e nella fattispecie nell’esegesi materialistica, un orizzonte di senso ultimo, una dimensione oltre la quale non era dato collocarsi, così ristabilendo, attraverso il Sartre della Critique, un primato della storicità e della conoscenza dialettica.

Il testo letterario veniva pertanto letto alla stregua di contenitore organizzato, entro il quale si sedimentava, in virtù di sottilissime mediazioni, il rapporto profondo tra l’individuo e la Storia, intesa come grande disegno collettivo agito, marxianamente, dalla forza dei modi di produzione. E lo studio di tali mediazioni autorizzava a scorgere nella narrazione – concepita quale unica modalità di accesso alla processualità storica – la ricchezza e la complessità di un organismo unitario, totale, solo apparentemente immediato e superficiale, perché in fondo abitato da quell’insieme di pulsioni e di forze materiali che Jameson chiamerà, appunto, inconscio politico. Si trattava di uno degli ultimi tentativi di resistenza alle poetiche della destrutturazione e della disintegrazione messe in campo dal post-strutturalismo.

A ribadire questa visione, in termini quasi applicativi, sono i tre studi raccolti in Raymond Chandler. L’indagine della totalità, recentemente proposti al pubblico italiano da Cronopio, per la cura di Giuseppe Episcopo. Chandler è, insieme ad altri, un oggetto di interesse privilegiato per Jameson: sia perché simbolo di una modalità espressiva ed estetica – il romanzo poliziesco – che, a partire dalle pioneristiche intuizioni di Siegfried Kracauer, riflette le aperture e le contraddizioni di un certo modernismo e di una certa crisi del senso; sia perché terreno d’elezione per verificare la validità teorica di un concetto, quello di totalità, che da sempre Jameson ha ritenuto indispensabile per valorizzare il nesso, politicamente urgente in tempi di liquidazione del moderno, fra una critica delle forme e una critica della società. Del resto, anche questo piccolo e aureo libro si inserisce nel progetto più complessivo di una diagnostica delle poetiche sociali, intesa come analisi filosofica delle forme estetiche e della loro emersione politica, in relazione alla quale Jameson sembra rileggere, verificandoli in modo permanente, i luoghi classici dell’estetica materialistica (fra tutti, il rapporto tra cultura e materialità, tra gli elementi sovrastrutturali e i rapporti economici).

Ma il libro su Chandler è anche la prova della straordinaria capacità che il teorico americano esibisce di interpretare i testi mediando fra dettaglio e complessità. È anzi il legame tra frammento e sistema narrativo a costituire il banco di prova per scorgere, nelle allegorie politiche del romanzo poliziesco, quella problematizzazione dell’atomismo che è il riflesso, secondo Jameson, delle leggi profonde di un’epoca che ha reso inaccessibile, e quindi desiderabile attraverso le vie dell’immaginario, la vita sociale e collettiva. Lo sforzo di ricostruzione dell’intreccio che anima il romanzo poliziesco diventa pertanto non solo l’allegoria di un’edificazione artificiale della totalità, ma il riflesso, senz’altro più profondo e specifico, del lavoro di contenimento e di giustificazione degli eventi cui lo scrittore deve consegnarsi.

Qui si innesta la particolarità di Chandler: ovvero, la sua capacità illusionistica di occultare tale processo teleologico. Per dirla con Jameson, «la de-mistificazione […] comporta l’eliminazione delle motivazioni dall’evento delittuoso, a differenza del romanzo poliziesco classico che, attraverso la propria prospettiva formale, investe sempre l’omicidio di una motivazione». In Chandler, al contrario, il delitto, ossia l’evento che tutto giustifica, «appare accidentale e privo di significato», cosicché la totalità si presenta nelle forme di una distorsione normalizzata, dal momento che «il salto all’azione fisica – la consumazione stessa di un delitto – è sempre brusco e privo di ogni antecedente giustificazione logica nel mondo della realtà» (pp. 46-47).

Bisogna pertanto chiedersi, nell’ottica dello storicismo assoluto e materialista incarnato da Jameson, di cosa sia il segno questo “complottismo” della totalità, per dirla con un’immagine ancora jamesoniana. Vale a dire: di cosa sia sintomo quella particolare predisposizione del lettore chandleriano, che «sa bene che non è per la soluzione del mistero che continua […] a leggerlo, ammesso che, tanto per cominciare, le soluzioni risolvano qualcosa» (p. 83). Una possibile soluzione sta nel lavoro di scavo e interpretazione che elegge i “materiali grezzi” del testo (secondo una terminologia desunta da Freud) a oggetto di indagine: quegli elementi costitutivi che rendono possibile, fra autore e lettore, l’intelligibilità della narrazione.

La particolare architettura della totalità, che decostruisce la classica consequenziarietà del romanzo poliziesco, non risiede pertanto in una semplice scelta autoriale, quanto nella natura intrinseca del materiale socio-storico da cui la narrazione si origina e del quale l’autore si serve. La dimensione atomistica del dettaglio che non sa correlarsi all’intero e, dunque, la caduta del nesso causa-effetto non sono soltanto un’originale trovata stilistica o una peculiare modalità espressiva. Si tratta di pulsioni più profonde, che predeterminano l’orizzonte espressivo e rendono possibile l’addomesticamento della totalità verso certe direzioni e certe chiusure di senso, secondo i termini della teoria ermeneutica che Jameson aveva esposto ne L’inconscio politico.

Lo studio di tali strategie di contenimento produce dei veri e propri approfondimenti dialettici verso il “concreto” di matrice hegeliana: è come se l’analisi di Jameson, attraversando con cura tutte le possibili stratificazioni che conducono al riconoscimento finale di un orizzonte immaginario entro cui collocare il testo, riuscisse a rappresentare sempre se stessa, a oggettivarsi nell’esibizione del ragionamento, trascinando l’intera riflessione su un campo finalmente sociale e politico.

Il testo non è più allegoria di una sua illeggibilità o manifestazione di una sfinge, quanto il pre-testo, il veicolo, definito e risolto, di un significato più ampio. Il testo, insomma, si pone come forma simbolica che, in uno specifico e determinato momento, ha introiettato pulsioni, cariche e aspettative sociali. Allo stesso modo, l’avventura ermeneutica, anch’essa esperibile solo in forma testuale, diventa un corpo a corpo con le falsificazioni imposte dalla costruzione della totalità, sia quando parte di un progetto autoriale ed estetico, sia quando momento di un lavoro di ricostruzione dei presupposti politici e infine artistici. E alla luce questo perenne dinamismo del concetto Jameson si dimostra non solo un aggiornatissimo interprete della tradizione dialettica, ma anche un inguaribile adorniano.

Riferimenti bibliografici
F. Jameson, L’inconscio politico. Il testo narrativo come atto socialmente simbolico, Garzanti, Milano 1990.
Id., Raymond Chandler. L’indagine della totalità, Cronopio, Napoli 2018.

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