Devastazione ambientale con perdita di biodiversità; sfruttamento intensivo della terra; cambiamento climatico ed eventi estremi; violenze sistematiche contro i popoli indigeni; delocalizzazioni; impoverimento del ceto medio occidentale; sfruttamento delle classi subalterne del Sud Globale; zoonosi; smantellamento delle reti di protezione sociale; rarefazione degli spazi di condivisione comunitari e collettivi; consumismo sfrenato; finanziarizzazione dell’economia, speculazioni e bolle che portano gli Stati a farsi carico dei too big to fail esacerbando la dinamica dei debiti (pubblici e privati); nuovi nazionalismi aggressivi di natura imperialista; repressione del dissenso; riduzione dei tempi del loisir e totalitarismo dei tempi produttivi (sia in termini di produzione di beni e servizi che di consumo).
Il conto che ci presenta la governamentalità capitalista nella sua forma neoliberale non lascia spazio a fraintendimenti: essa minaccia l’umanità intera, tanto da un punto di vista di tenuta del legame sociale che da quello ecologico. Ma esiste una exit strategy, oppure il vivere “nel migliore dei mondi possibili” non permette alternative percorribili? Se lo chiede Jérôme Baschet, storico medievalista e contemporaneista francese e docente presso l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi e presso l’Università Autonoma del Chiapas in Messico nel suo Addio al capitalismo. Autonomia, società del buen vivir e pluralità dei mondi edito per i tipi di Ortica nel marzo 2025.
Rifacendosi a Naomi Klein ed al suo Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri (2007), l’autore sostiene come le crisi siano sempre state utilizzate nel corso del Novecento come stratagemma che ha richiesto che le popolazioni sopportassero situazioni estreme in nome del perpetuarsi del sistema economico, ma che quella dei mutui subprime del 2007 sia la prima, dopo quella del 1929, che si è materializzata nel cuore dell’economia globale (i mercati finanziari) e ha messo seriamente in discussione la sopravvivenza stessa del sistema, mentre le precedenti avevano carattere locale o erano legate a semplici speculazioni.
Tale crisi ha manifestato i limiti intrinseci di una narrazione che insegue la crescita infinita in un sistema finito, soprattutto laddove tale crescita viene mantenuta attraverso il dispositivo combinato di riduzione dei salari e forte indebitamento che comporta l’assenza di alternative alla forte sovraccumulazione. Quella neoliberale è, per l’autore, una vera e propria rottura epistemologica rispetto al capitalismo tradizionale: mai era accaduto prima, infatti, che l’economia invadesse l’intero orizzonte della vita umana, permeando dei suoi princìpi l’intera vita sociale (dal capitalismo disciplinare e gerarchico che attraverso le sue istituzioni perpetra il privilegio economico, al capitalismo del controllo globalizzato che estende i valori economici del “tutto è mercato” a tutta la vita non-economica).
Ma esiste una alternativa a tutto ciò, oppure l’umano è condannato al collasso socioeconomico ed alla distruzione di tutto il non-umano che ha attorno? Secondo Baschet, le proteste globali iniziate da Seattle nel 1999 hanno incrinato in maniera netta la narrazione della “fine della storia” ed a ciò hanno contribuito le tante forme di lotta dei popoli indigeni del Sud Globale connesse al concetto di “Abya Yala” (che significa “Terra Matura”, “Terra viva”, “Terra in fioritura”), termine utilizzato dai Kuna tra Colombia e Panama per designare il continente americano il cui uso è rivendicato dalle comunità indigene, dai movimenti anticapitalisti e dalla letteratura decoloniale.
L’esempio degli zapatisti – indigeni, contadini e mestizos del Chiapas che da un trentennio lottano contro le violenze sistematiche dello Stato, dei grandi proprietari terrieri e dei narcotrafficanti per tutelare forme di governamentalità connesse alla tradizione Maya (orizzontalità sociale, proprietà collettiva delle terre, comunitarismo assembleare, ecologismo) ed all’emancipazione più moderna (tutela delle minoranze, inclusione, antirazzismo, contrasto delle violenze di genere) – è lampante in quanto fin dal 1994 ha mostrato che esistono esperienze sociali alternative che vanno esplorate.
Gli zapatisti hanno espresso chiaramente che il loro obiettivo è una pratica politica innovativa: non la presa del potere e la conquista dello Stato come le Avanguardie del Novecento, ma l’organizzazione alternativa e innovativa della società. Vengono meno, infatti, nella nuova governamentalità del “buen vivir” tanto l’istanza statale quanto la delega caratteristica della democrazia rappresentativa occidentale. Tale modifica radicale viene portata avanti attraverso l’autonomia delle comunità locali, esperienza per certi versi analoga alla Comune di Parigi, organizzate in una rete di più consigli che riguardano scale e porzioni sempre maggiori di territorio (dal locale al globale in una prospettiva di intreccio internazionale) e i cui membri vengono selezionati a turno tra i vari componenti delle comunità, in modo da evitare forme di concentrazione di sapere e di potere.
Baschet reputa esemplare l’esperienza zapatista per affrontare il tema del “buen vivir” come alternativa al capitalismo: tale concetto insiste sulla dimensione qualitativa e non su quella quantitativa della società ed è agitato da un’etica collettiva che promuove la solidarietà e l’armonia generale tra esseri viventi e Madre Terra, piuttosto che la competizione. Il “buen vivir” rifiuta l’espansione del produttivismo predatorio capitalista e trova relazioni più equilibrate tra umani e pianeta: rinunciando alla concentrazione privata delle risorse e dei beni, fa prevalere rapporti di compartecipazione e di reciprocità. Esso è radicato nei valori e nelle pratiche tradizionali dei popoli amerindi e non va inteso come sterile culto del passato o come tradizionalismo revanscista, ma come movimento che parte dal desiderio di conservazione/liberazione del passato per giungere in un futuro alternativo a quello capitalista.
L’autonomia indigena dei popoli del Sud Globale permette, così, a Baschet di immaginare una via d’uscita dal capitalismo, costellata da una serie di superamenti tattici di formulazioni caratteristiche della civiltà del capitale: della divisione tra Natura e Cultura; della scissione tra Mente e Corpo; dello Stato e della forma mercantile (economica) di governo dei rapporti sociali; delle carceri e della forza militare; delle assicurazioni e delle banche; della pubblicità e di tutto ciò che ha a che fare con il commercio di bisogni immaginari che si nutrono della perenne insoddisfazione del consumo; di larga parte dell’industrializzazione laddove questa è sconnessa dai concreti beni comuni dell’umano e del non-umano.
Quello del “buen vivir” è, insomma, un progetto di decrescita felice, un ritorno al locale che sia però attento alle reti di interconnessioni globali tra umano e non-umano nelle quali questo è calato e che vuole portare al superamento dei colonialismi e di tutti i rapporti tra popoli che non siano basati su una forma di scambio simile al potlach e su una dimensione di “pluriversalismo” – o, come dicono gli zapatisti, “un mondo in cui hanno posto molti mondi”.
Riferimenti bibliografici
M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2017.
F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2016.
N. Klein, Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano 2007.
S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2014.
J. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Ombre Corte, Verona 2017.
Jérôme Baschet, Addio al capitalismo. Autonomia, società del buen vivir e pluralità dei mondi, Ortica, Roma 2025.