Esiste un cinema semplice, fatto di storie semplici così come semplice può essere la vita. Questo cinema riesce talvolta a creare una piccola bolla che trattiene al suo interno chi guarda, come è il caso di À pied d’œuvre di Valérie Donzelli, tratto dal romanzo autobiografico di Franck Courtès (2023), di cui il film ricalca il titolo.

La trama è piuttosto lineare: Paul Marquet (Bastien Bouillon), un uomo di quarant’anni, fotografo di professione, decide di lasciare il suo mestiere per fare lo scrittore. Quest’uomo ha una moglie e due figli, una casa a Parigi. La moglie si trasferisce a Montreal e i figli decidono di seguirla, lui deve lasciare la casa in cui tutti insieme abitavano perché da solo non può più permettersela e trasloca in uno studio che si trova sotto il livello della strada ma che almeno gli permette di avere un posto in cui riposare, scongiurando così la possibilità di non dormire per strada. Quest’uomo sa che scrivere non è una velleità momentanea ma la sola risposta che può colmare il suo desiderio.

Così segue la sua inclinazione, pubblica un paio di romanzi che vengono apprezzati dalla critica, ma vendono poco. Prova a pensare un terzo romanzo, chiede un anticipo, continua a scrivere. Il terzo romanzo è finito e non funziona. Il desiderio resta ma occorre lasciarlo sullo sfondo di una decisione che possa aiutarlo a fronteggiare una nuova emergenza: la povertà. Ma si può davvero parlare di povertà, anche se la “persona povera” ha una casa e riesce a provvedere ai suoi bisogni minimi? È questa una delle domande che con più insistenza appaiono nella resa cinematografica di Donzelli.

C’è una frase di Aldous Huxley – presente nel film come nel romanzo – che porta a riflettere su quanto “il contrario di una cosa non sia il suo contrario, bensì la medesima cosa colpita dall’aggettivo vero: il vero patriottismo, il vero cristianesimo, il vero socialismo”. Questa logica tenderebbe a giustificare il fatto che non è vera quella povertà di una persona che è meno povera di altre. Non è vera soprattutto perché Paul ha scelto di modificare la sua vita, come gli rimproverano il padre e la sorella che, nel corso di una cena, gli dirà di aver visto proprio quella “vera povertà” nei suoi viaggi all’estero.

Ci sono almeno due possibili ragioni che potrebbero dare un riscontro della mancata comprensione della decisione presa da Paul. La prima pertiene alla convinzione che una persona, se è una persona matura, ha l’obbligo di mantenere il controllo della propria vita, evitando i rischi e le incertezze. La seconda riguarda il mestiere di scrivere che, volendo superare la canonica formula, si fa fatica a riconoscere come tale. Nondimeno la regia di Donzelli non fa altro che mostrare le modalità attraverso cui chi pratica questo mestiere tende a osservare il mondo.

È in particolare una scena a mostrare in chiarezza cosa accade quando una pagina si riempie prima nella testa per poi diventare visibile sulla superficie bianca della pagina. Paul sta pensando al suo terzo romanzo e ricorda il momento in cui la sua ex moglie, prima di partire, gli ha chiesto la cortesia di attendere a casa l’arrivo di un pacco l’indomani. Nell’immaginazione dell’uomo, il volto della moglie resta lo stesso ma cambiano le sue parole e, soprattutto, cambiano le voci con le quali queste parole vengono pronunciate: non sono più solo le parole della donna a risuonare, ma anche quelle di monito proferite dal padre e dalla sorella, e tutte trovano dimora in quel volto.

Il lavoro di scrittura difatti è una sorta di montaggio in cui, in un momento di sospensione dal reale, si cerca di far parlare corpi altrimenti muti, esercitando così una libertà tutta personale di attribuire loro parole e pensieri che sono i propri. Si tratta di costruire scenari possibili per imbastire una storia che sia, per quanto possibile, perfetta nella sua forma finale: è un vero e proprio lavoro, per il quale è necessario prepararsi. Essere “à pied d’œuvre” significa infatti essere in grado di ri-mettersi all’opera, cioè letteralmente di comprendere che la scrittura non è un vezzo ma un lavoro. In questo senso appare politica la scelta di inserire estratti del romanzo di Courtès nella sceneggiatura del film, raddoppiando così lo statuto di un’opera che è di forma mutevole. È una storia semplice, appunto, in cui il riso e il pianto, il dolore e la gioia, la tensione e la distensione non arrivano mai a oltrepassare la soglia di un eccesso per limitarsi a mostrare che, nella vita, si può imparare a essere l’una e l’altra cosa e tante altre cose ancora. 

Il film approfondisce, forse in maniera più evidente del romanzo, la trasformazione di Paul/Franck rispetto a questo punto: per quanto l’uomo sia capace di riconoscere il suo bisogno, egli non è da subito in grado di portarlo a compimento fino in fondo, se non dopo aver accettato che “completare un testo non vuol dire essere pubblicato, essere pubblicato non vuol dire essere letto, essere letto non vuol dire essere amato, essere amato non vuol dire avere successo, avere successo non è segno di alcuna fortuna”. Come Paul viene redarguito dalla sua agente, la sensibilità e il talento nella scrittura non bastano (anche se non è chiaro quali siano i fattori che permettano di raggiungere un livello di sufficiente efficacia in ambito editoriale).

Le prime scene del film hanno una particolare forza nel mostrare il modo in cui Paul comprende, con dolore, che la scrittura non può essere il suo solo lavoro. Imparando ad abitare questa consapevolezza che Paul compila una sorta di quaderno di privazioni in cui, in maniera metodica, appunta ciò di cui può fare a meno e ciò che può ridurre. La sua è una totale adesione alla decrescita, in questo caso non del tutto felice ma estremamente necessaria, per non perdere il contatto con il suo desiderio di scrivere. E, dato che questo desiderio definisce la sua persona, decide di aggiungere un nuovo lavoro al suo lavoro, cioè di giustapporre un’opera all’altra, cosa che continuerà a fare anche dopo aver raggiunto il successo.

Ricostruendo i passaggi, dopo alcuni tentativi fallimentari di contatto con agenzie,  l’uomo si iscrive su un sito che raccoglie tuttofare disposti a un minimo compenso in cambio di lavori non specializzati come, ad esempio, ripulire una cantina, montare mobili o tagliare l’erba di un piccolo giardino. Nella proliferazione della scrittura abilitata dalla rete, le prestazioni di Paul vengono valutate, e così anche lui sente il bisogno di appuntare alcuni particolari relativi ai suoi saltuari datori di lavoro e, in un primo momento, non si accorge che, azzerando la distanza tra scrittura e vita, sta gradualmente raggiungendo quel livello di autenticità in cui la letteratura diventa campo di incontro per un’esperienza-in-comune. Il libro che ne risulterà, e che vincerà il Premio Goncourt (nel film e nella realtà), infatti non è altro che il racconto del modo in cui lui trascorre le giornate.

Per certi aspetti, si potrebbe dire che Paul/Franck non ha completamente smesso di fare il fotografo decidendo di iniziare a scrivere, poiché è proprio la sua peculiare capacità di vedere che lo ha portato a instaurare un legame diverso con il mondo e con le persone, superando così il circolo imposto da quei “desideri che ci affliggono e ci infliggono”, cantati nella canzone Foule sentimentale di Alain Souchon che segna una scena del film. Una “folla sentimentale” di cui abbiamo un viscerale bisogno di appartenenza per non restare intrappolati in una vita che non si ha la forza di disconoscere.  

Riferimenti bibliografici
F. Courtès, À pied d’œuvre, Gallimard, Paris 2023.

À pied d’œuvre. Regia: Valérie Donzelli; sceneggiatura: Valérie Donzelli, Gilles Marchand; fotografia: Irina Lubtchansky; montaggio: Pauline Gaillard; musiche: Jean-Michel Bernard; interpreti: Bastien Bouillon, André Marcon, Virginie Ledoyen; produzione: Pitchipoï Productions (Alain Goldman); origine: Francia; durata: 92’; anno: 2025.

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