Sono andato a vedere il nuovo film di Franco Maresco al primo spettacolo del primo giorno di programmazione, in un cinema della mia città che è anche un cinema della sua città, come in preda all’urgenza di andare a verificare qualcosa che non saprei precisare con esattezza. Ho trovato un film che non esiterei a definire unico, felicemente delirante e completamente diverso da quello che si fa oggi in Italia. Sono uscito contento dal cinema. E ho cominciato a riflettere per provare a comprendere le ragioni di quella contentezza, e più nello specifico per chiedermi cosa rappresenti oggi Maresco nel cinema italiano – al di là di qualunque posizionamento, simpatia, atteggiamento in fondo promozionale. Ho un’ipotesi, provo ad articolarla.

C’è un momento, in Un film fatto per Bene, che va forse letto come la sua autentica chiave di interpretazione. Il regista, fuori campo, convoca la stampa per parlare del suo nuovo film su Carmelo Bene. Alla domanda di uno dei giornalisti presenti in sala, lo storico amico Roberto Giambrone, Maresco risponde – ridacchiando sotto i baffi – di poter essere considerato come il Carmelo Bene del XXI secolo. È una delle gag più dichiaratamente svelate del film. I più si concentreranno sulla prima parte dell’affermazione, il paragone volutamente iperbolico con l’artista salentino, ma l’accento va posto invece sulla seconda: il presentarsi come un artista del XXI secolo. È qui che si palesa più che altrove il carattere di farsa dell’intero film: mai Maresco si riferirebbe a sé come uomo del XXI secolo. 

Questa spia così scoperta mi sembra indicare una pista da seguire per costruire una lettura diversa da quelle circolate finora, che parte da un riconoscimento essenziale – apparentemente non incontrovertibile: Maresco è il più grande uomo di spettacolo che abbiamo oggi in Italia. Morti Mike Bongiorno, Maurizio Costanzo e Pippo Baudo, momentaneamente esiliato Fiorello, non rimane che lui. Ci si pensi: rifacendosi a modelli diversi da quelli menzionati (ma guardando a una spettacolarità che nella televisione ha spesso trovato la sua linfa) ne ha dato prova in tutta la sua carriera, ed è questa la sua più autentica natura, assai più di quella di intellettuale/profeta a cui frequentemente lo si vuole ricondurre e con cui in questo film gioca.

Per chi ha avuto la possibilità di seguirlo, ne ha fornito l’ennesimo fulgido esempio lo scorso anno, a Palermo. Contro l’immagine pubblica da misantropo che si è costruito, ha convocato ogni sera centinaia e centinaia di persone a seguirlo in un vero e proprio “Franco Maresco Show” presso il Real Teatro Santa Cecilia, sede del Brass Group, nel centro storico della città. La serie di incontri, intitolata Io e il Jazz, riprendeva (amplificandola) l’idea di uno straordinario spettacolo messo in scena al Teatro Biondo di Palermo nel 2016, dal titolo Jass – Quando il jazz parlava siciliano. Nel corso di questa nuova dozzina di appuntamenti, entrando in scena ogni sera sulle note dello Sceicco d’Arabia suonata dal fido musicista Salvatore Bonafede, ha condiviso con il pubblico palermitano e con gli amici invitati nel suo salotto (di volta in volta Marco Giusti, Ignazio Garsia, Stefano Zenni, Ernesto Tomasini, Emiliano Morreale, Fulvio Baglivi, Umberto Cantone e altri, oltre a musicisti come Vito Giordano, Nicola Giammarinaro, Alessandro Presti, Carmen Avellone) alcune delle sue più grandi passioni, e in particolare quella del jazz, di cui è autentico esperto e da cui tutto è cominciato alla fine degli anni settanta. 

Da grande uomo di spettacolo qual è, Maresco è capace di spettacolarizzare anche la sua (autentica) disperazione, ed è a questo show che ci convoca in Un film fatto per Bene. In questa operazione risiede l’unicità del film, ma anche il vero omaggio a Carmelo Bene: non rivolto alla parte che si potrebbe ritenere più essenziale del lavoro di CB (a cui forse Maresco non è neanche troppo interessato) ma a quella più nazionalpopolare, a quell’Uno contro tutti che nel 1994, a fianco di Maurizio Costanzo, ha fatto conoscere il grande attore anche a quel pubblico televisivo medio che non era minimamente interessato al teatro. In questo “Uno contro tutti” mareschiano, con analogo gusto della provocazione ed esaltazione della singolarità, il regista palermitano invita tutti noi spettatori al teatro dell’immaginario che ha costruito in questi anni, riportandoci i Saverio, i Ciccio Mira, i Puma e conducendoci in giro per il suo mondo come un novello pifferaio magico, tenendo insieme Franco Scaldati e Ingmar Bergman, Antonio Rezza e Letizia Battaglia con l’abilità del grande maestro d’orchestra. Senza preoccuparsi di approfondire troppo, anzi: senza sapere più davvero fino in fondo cosa fare di quei materiali, di quel mondo che è (stato) il suo mondo, del mondo che ha fatto. Quasi non riconoscendoli più: smarrito per non essere riuscito a portare a compimento (per ragioni esterne, che chiamano in causa direttamente l’industria cinematografica) il primo progetto del film. Uno smarrimento dichiarato, denunciato e con uno stesso gesto messo in scena.

Dentro questo grande spettacolo del dramma nulla è escluso, neanche Maresco stesso che è ovviamente il vero centro del film. È qui che risiedono le invenzioni più significative: quelle che lavorano alla costruzione del suo personaggio, e in particolare le figure del tassista devoto Conticelli e il corpo stesso di Maresco, ineguagliabile in momenti di straordinaria comicità come quello in cui, al confessionale, si concentra sulla pendenza della croce piuttosto che su ciò che dovrebbe fare. La grandezza di Maresco risiede da sempre nell’invenzione di forme, gag, di spettacolo insomma – uno spettacolo che ha reinventato a modo suo, mostrandosi in grado di leggere la realtà attorno a sé in maniera originale e radicale. Come bisogna considerare allora la parte centrale del film, quella “retrospettiva” sulla sua carriera? Essa mostra apparentemente minor forza, eppure è la parte che traduce più di altre tutta la sfiducia e la vanità del cinema per Maresco oggi. Guardando al passato, e coltivando il mito di cui è profondo oggetto, il regista sembra davvero dichiarare di non credere più nel senso e nella possibilità di continuare a fare quello che pure mostra di continuare a saper fare di meglio.

Viene in mente una scena di Vogliamo i colonnelli di Monicelli, in cui il generale Pariglia, preparando il discorso da fare alla nazione dopo il colpo di stato, dice: “C’è un grande futuro nel nostro passato”, e il deputato fascista Giuseppe Tritoni, interpretato da Ugo Tognazzi, lo corregge: “C’è un grande passato nel nostro futuro”. “Ma perché, non è la stessa cosa?”, dice quello. “Eh no!”, dice Tognazzi. “Eh sì!”, replica il generale. Dentro questa dialettica si muove anche il film di Maresco: rassegnato nella constatazione che il meglio sia alle spalle e che nulla abbia più senso, o preso – nonostante tutto – dalla foga creatrice, da una disperazione vitale che guarda al futuro con la consapevolezza di un grande passato.

Questa parte centrale di ricostruzione della carriera di Maresco è essenziale per comprendere l’intero film, ma anche per riflettere sul fatto che la messa in scena della disperazione nulla toglie alla disperazione stessa. Ha ragione dunque il regista quando dice che questo è il suo film più onesto. Più che alla wellesiana potenza del falso, però, il riferimento per leggerlo dovrebbe situarsi dalle parti del Re per una notte di Scorsese per giungere fino ai due Joker di Todd Phillips. In maniera analoga alla nostalgia che legava Fellini alla spettacolarità del circo, Maresco fa suo e trasforma, con Bene e oltre Bene, lo spettacolo della televisione, ciò su cui da sempre non ha smesso di lavorare. Un film fatto per Bene va allora probabilmente visto, in fin dei conti, come una specie di autopsicografia, e cioè negli stessi termini adoperati dal portoghese Fernando Pessoa in una celebre poesia. In questa disperata glorificazione farsesca, come il poeta di Pessoa, Maresco è a tutti gli effetti un fingitore: anche di lui, come del suo omologo letterario, si potrebbe dire che “finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente”. 

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