«Pensare, volere, desiderare, agire, esistere sul palcoscenico, nelle condizioni di vita del personaggio e all’unisono col personaggio, regolarmente, logicamente, coerentemente e umanamente» (Stanislavskij 2017, pp. 20-21). Così Konstantin Stanislavskij scriveva in uno dei due tomi in cui raccoglieva i risultati dei suoi studi in merito all’ideazione di un nuovo approccio sistematico alla recitazione teatrale. Marlon Brando, di cui ricorrono i cento anni dalla nascita, è una delle figure che meglio ha interpretato tale Metodo, che ha trovato una proposta concreta nell’Actors Studio di Lee Strasberg. Brando è stato uno dei divi più talentuosi e celebri del panorama hollywoodiano (ricordiamo i due Oscar per Fronte del porto di Kazan e per Il padrino di Coppola), colui che è riuscito a portare il Metodo Stanislavskij a Hollywood, proponendo un nuovo modo di recitare caratterizzato da un grande realismo psicologico, e in cui si cercava di esprimere direttamente l’esperienza umana.
Brando è nella sua recitazione poco stilizzato, nel tentativo di dare più spazio possibile alla psicologia dei personaggi, per giungere ad un’identificazione totale con essi. L’attore non recita più come se fosse don Vito Corleone, il colonnello Kurtz o l’americano Paul dell’Ultimo tango a Parigi (Bertolucci, 1972), ma egli è tali personaggi, rivelando così una tecnica fortemente espressiva e un talento attoriale che rimane intatto nelle diverse fasi della sua carriera. In Apocalypse Now (Coppola, 1976-1978), per esempio, Brando riesce ad abitare il luogo del climax dell’intera opera in un’apparizione di soli pochi minuti. Visibilmente in sovrappeso e con pesanti problemi di alcolismo, Marlon Brando dà prova di una presenza scenica straordinaria, riuscendo a far esplodere nel finale del film tutta la tensione accumulata. L’attore viene prima di tutto, prima della storia che si vuole rappresentare, prima di ciò che il film ci vuole dire.
Possiamo già iniziare a comprendere le origini dell’esibizionismo e del narcisismo che accompagnarono la vita dell’attore americano, sostenuti dalla sua enigmatica e virile bellezza e dai suoi ruoli complessi e multiformi. Brando fu, come sappiamo, un vero e proprio mito, capace di incarnare una notevole carica erotica, a tratti quasi “volgare”. E fu segnato anche da un profondo narcisismo, che lo portò ad una vera e propria fase depressiva, accompagnata da obesità e diabete che lo condussero, nel 2004, alla morte. Nonostante questo periodo di decadenza, la figura di Brando rimase un’icona fino all’età avanzata, «he was like a god, a king» (Bosworth 2002, p. 14). «Sembrava essere apparso dal nulla, come se venisse da un altro mondo» (Ibidem, p. 14), sosteneva una delle donne della sua vita, la ballerina Sondra Lee. «Brando poteva trasformarsi in chiunque all’istante e la trasformazione risultava completamente organica. “Se avesse interpretato un elettricista, si sarebbero visti i cavi”» (Bosworth 2002, p. 15). Riusciva a mostrarsi sempre “autentico”, a modellare ogni ruolo su se stesso. L’attore tramite la reviviscenza (perejivànie) riusciva ad immedesimarsi radicalmente nel personaggio, rivivendone i vissuti come se fossero i propri.
Il Metodo Stanislavskij consisteva infatti nella creazione del personaggio da parte dell’attore e nell’immedesimazione in esso, grazie all’immaginazione, alla psicotecnica, al sottotesto, alla memoria emotiva, lavorando profondamente alle radici del tormento del personaggio e di quello dell’attore. L’interpretazione attoriale non è dunque una simulazione, bensì un lavoro di creazione di un ruolo a partire dall’esistenza dell’attore stesso. Senza perdere se stesso e la propria identità, Marlon si immergeva così in un nuovo carattere, mediante un lavoro che partiva in primo luogo da se stesso e dall’esplorazione delle proprie emozioni ed esperienze vissute.
L’attore «deve portare qualcosa di sé, i suoi ricordi di emozioni passate, fino alla creazione dei suoi personaggi, e questo in un certo senso legittima il nostro rovistare nella sua storia personale alla ricerca di idee» (Schickel 1991, p. 3). L’attore, mediante un lavoro fisico da cui riesumerà la sua propria memoria emotiva, deve ricercare le sue emozioni, che poi saranno necessarie all’interpretazione del personaggio. «Cominciate pure la scena seguendo lo schema esteriore, purché essa susciti in voi le sensazioni già provate e voi vi abbandoniate a questi ricordi emotivi, continuando la scena sotto la loro guida», sosteneva Stanislavskij (2017, p. 173), delineando una tecnica fondamentale per garantire un coinvolgimento totale dell’attore.
Tale Metodo cambia dunque il paradigma dello star system stesso, proponendo un modo di recitare più “autentico”, liberato da forme stereotipate. Per compiere un tale lavoro è dunque necessario uno studio su se stessi, sul personaggio e sull’attore; questo lavoro investe soprattutto il “sottotesto”, cioè gli stati d’animo e i pensieri inconsci del personaggio.
I sentimenti che ha, per esempio, Terry Malloy in Fronte del porto sono i sentimenti “propri” dell’attore, fatti rivivere nel personaggio stesso. Marlon Brando in questo film è il malvivente del porto di New York, e rivive appieno i lati più crudi e realistici della vita criminale portuale degli anni cinquanta. Brando ci presenta un personaggio vero, che soffre e che vive in prima persona la drammatica realtà dei lavoratori del porto. Terry Malloy è così un personaggio che ci è restituito con connotati fortemente umani, titubante, timoroso di sfidare un mondo ostile, e anche consapevole delle difficoltà nel fare i conti con la propria coscienza. Come ci dice Brando stesso, «il cinema è capace di ritrarre l’uomo che pensa e il suo pensiero: la cinepresa diventa un microscopio, uno strumento che attraversa le superfici e che permette di ritrarre l’esperienza interiore dell’essere umano».
I personaggi interpretati da Brando sono, come abbiamo detto, presentati e ri-vissuti in prima persona e ciò avrà anche conseguenze psicologiche sull’attore stesso. Brando segue dunque l’imperativo «Don’t act. Behave» (Bosworth 2002, p. 17), creando, come diceva Strasberg «con la sua carne e il suo sangue tutte quelle cose che le altre arti, in qualche modo, tentano di descrivere». Nel Metodo Stanislavskij non si imita qualcuno o qualcosa, ma si diventa altro da sé. La presenza scenica e l’immedesimazione psicologica di Brando riescono così ad illuminare i suoi film, dotando i suoi personaggi di un nuovo grande realismo, in cui convivono la bellezza dirompente e la tecnica raffinata e introspettiva che lo renderanno il divo e il sex symbol che, ancora oggi, celebriamo.
Riferimenti bibliografici
P. Bosworth, Marlon Brando: a biography, London, Phoenix 2002.
B. Braithwaite, The films of Marlon Brando, BCW Publishing, Bembridge 1977.
R. Schickel, Brando: a life in our times, Pavillion, London 1991.
K. S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su se stesso, Laterza, Roma-Bari 2017.
B. Thomas, Brando: portrait of the rebel as an artist, Allen, London-New York 1973.
Marlon Brando, Omaha 1924 – Los Angeles 2004.