A kind of watershed: «Una specie di spartiacque». Così, tre anni più tardi, Richard Grusin valutava l’impatto dell’evento dell’11 settembre 2001 sulla cultura e i media statunitensi: «Più che una cesura categorica o una frattura, una specie di momento spartiacque, una profonda trasformazione non pienamente evidente sino a qualche tempo dopo essere avvenuta». Mi pare si possa dire oggi che questa valutazione, formulata ancora piuttosto a ridosso dell’evento, si sia dimostrata lungimirante, non soltanto per l’ambito cui era riferita, né per i soli Stati Uniti. Mi viene infatti da ripensare a come Jean Baudrillard iniziava Lo spirito del terrorismo, il suo lucidissimo articolo – che perciò, allora, tanto fece gridare allo scandalo – pubblicato su “Le monde” il 2 novembre 2001: dopo lo «sciopero» di «eventi simbolici di portata mondiale» prolungatosi per tutti gli anni Novanta, eccoci improvvisamente ad aver visto scoppiare l’11 settembre – scriveva – «l’evento assoluto, […] la “madre” di tutti gli eventi».

Ma funzionando appunto da spartiacque – viene ora da aggiungere – da allora questa madre non ha smesso di figliare. Dopo che lei ha brutalmente interrotto quello sciopero, infatti, da vent’anni ci troviamo sottoposti ad una raffica pressoché ininterrotta di “eventi simbolici di portata mondiale”, quasi tutti – sia pure a diverso titolo – catastrofici, un po’ come la loro mamma: dall’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione militare a guida americana e “cristiana” nel 2003, che ha portato alle torture su prigionieri iracheni testimoniate dalle vergognose immagini scattate nella prigione di Abu Ghraib, all’uragano Katrina dell’agosto 2005, uno dei peggiori disastri naturali nella storia degli USA, che ha causato la più grande diaspora nella storia di quel Paese, al terremoto e maremoto con conseguenti tsunami e disastro nucleare di Fukushima, in Giappone, del marzo 2011. E ancora: dalle epocali migrazioni umane che tuttora insanguinano il Mediterraneo e il Rio Grande all’interminabile stagione dei feroci attentati terroristici islamisti in Medio Oriente, Asia, Africa ed Europa, a quella dei devastanti incendi, quanto mai simbolicamente cominciata a Notre-Dame di Parigi nell’aprile 2019, poi proseguita in Australia e Amazzonia, infine oscurata nell’attenzione mondiale dal diffondersi della pandemia di Covid-19 all’inizio del 2020. Nel corso della quale, peraltro, non sono mancati l’omicidio, diffuso dal cellulare di una passante, di un nero americano soffocato dal ginocchio di un poliziotto bianco, che ha scatenato la protesta mondiale, né un tentativo d’insurrezione contro la più longeva democrazia moderna istigato dal suo stesso capo di Stato. Come scrivevo in Filosofia-schermi, insomma, con lo spartiacque dell’11 settembre 2001 il postmoderno – qui inteso letteralmente come epoca «inaugurata da mutamenti che l’hanno resa irriducibile alla precedente» – è entrato nel “tempo delle catastrofi”.

In quell’evento-spartiacque qualcuno volle vedere allora un brutale “ritorno della realtà”, contro le presunte fughe da essa che avrebbero occupato molta intellighenzia mondiale, nel decennio precedente, in discussioni sulla fine della storia e delle ideologie da un lato, sull’avvento del virtuale dall’altro. La realtà, tuttavia, quel giorno si mostrò più irreale che mai, tanto da far pensare a molti che le sue immagini fossero quelle di un film catastrofico hollywoodiano. Diciamolo meglio allora: né la realtà era davvero andata in vacanza, né da questa improvvisamente tornò, manifestandosi risentita nella sua più nuda violenza. Anche perché la realtà non è mai “nuda”, ma sempre già mediata, come lo stesso Grusin da tempo c’insegna. Tuttavia le immagini di quel giorno – scelto per marchiare con le sue cifre il più sconvolgente evento visuale globale di semprequelle immagini, dunque, misero sotto gli occhi di tutti, simultaneamente, il “corto” del modo in cui eravamo abituati a concepire almeno tre circuiti, tra loro collegati, all’opera nel nostro rapporto col mondo: quelli che connettono rispettivamente mediazione e immediatezza, immagini e realtà, nonché mediazione e realtà stessa.

Quanto al primo, trovo particolarmente eloquente il modo in cui Jürgen Habermas ricordava l’evento dell’11 settembre 2001: «Nuova è stata senza dubbio la presenza delle telecamere e dei media, per cui un evento locale è diventato simultaneamente un evento globale e l’intera popolazione mondiale è stata trasformata in una platea di testimoni oculari impietriti». I mass-media e in particolare le televisioni, con le loro dirette, seppero dunque offrire una mediazione dell’evento tale da produrre una peculiare illusione d’immediatezza – ossia, letteralmente, d’assenza di mediazione – che lasciava presagire un futuro di assoluta “trasparenza” del visibile fruita per il loro tramite in “tempo reale”: una promessa che poi è divenuta addirittura pretesa ideologica di negare ogni «inseparabilità di realtà e mediazione» (Grusin 2017). Ecco il “messaggio” – per dirla con McLuhan – che da allora i media – in particolare quelli che si definivano “nuovi”, i media digitali – hanno preteso di trasmettere. In questo senso, nell’esperienza descritta da Habermas sembrano affondare almeno alcune delle radici di quella che altrove ho ironicamente definito l’ideologia della (assoluta) «Trasparenza 2.0». Del resto, già nel decimo anniversario dell’11 settembre 2001 il quotidiano francese “Le Monde” sottolineava come quel giorno avesse inaugurato pratiche di comunicazione che anticipavano il «Web 2.0» (espressione coniata solo due anni più tardi), segnando «la nascita di un uso delle immagini intimo, personale, che dava un’altra visione dei drammi del mondo» (Guillot 2011).

Nella maggior parte dei casi si trattava però d’immagini comunque estreme, che rovesciavano perciò il più atteso nesso imitativo con la realtà e in questo senso diventavano loro stesse eventi, sconvolgendo appunto l’abituale rapporto con essi. Si facevano insomma «eventi-immagine», per dirla ancora con Baudrillard: ecco il cortocircuito introdotto nel nesso tra immagini e realtà.

Negli anni immediatamente successivi l’11 settembre 2001, questi due cortocircuiti si sono andati sviluppando e tra loro intrecciando proprio grazie all’impulso dei “nuovi media”. Il primo ha infatti incontrato un terreno particolarmente fertile proprio nell’interattività partecipativa dei social networks e nell’ideologia della “Trasparenza 2.0” ad essi sottesa, quella che ancora oggi induce molti a pubblicare immagini ritoccate corredate dalla scritta no filter. Il secondo ha trovato fondamentale alimento nel venir meno del valore indicale delle immagini digitali, tecnologicamente sciolte dal nesso fisico con un referente e perciò in grado di divenire a loro volta «eventi-immagine».

Via via inoltratici nell’era del digitale – espressione che annuncia come quest’ultimo sia ormai divenuto componente essenziale e inestricabile del nostro odierno stare al mondo – l’intreccio di quei due cortocircuiti contribuisce al moltiplicarsi di forme sempre più diversificate di mediazione della realtà. Per dirla con le parole usate da Barack Obama nella sua prima intervista da ex presidente degli Stati Uniti, concessa alla BBC nel dicembre 2017, ne risulta che attualmente «uno dei pericoli di Internet è che le persone possono avere realtà completamente diverse». Inevitabile pensare a coloro che all’inizio del 2021 hanno invaso proprio il Parlamento americano, davanti agli schermi dei loro connazionali increduli, aspettandosi che il presidente uscente, dopo averli aizzati, li capeggiasse.

Ecco dunque il terzo cortocircuito cui accennavo prima: quello che si produce nel nesso tra mediazione e realtà. Da un lato, infatti, le molteplici e diversificate forme che questo nesso tende sempre più ad assumere finiscono per aggregare gruppi di persone che condividono – su base insieme generazionale, sociale, culturale, tecnologica e ideologica – “bolle” d’informazioni, conoscenze ed opinioni autocentrate e conchiuse anche al di là di intenzioni e consapevolezza. Dall’altro lato, tale tendenza trova compensazione in sempre più sofisticati sistemi di occultamento tecnologico e ideologico delle suddette forme di mediazione. Ne risulta l’ormai evidente smarrimento di un orizzonte condiviso di mediazione della realtà appunto denunciato da Obama: uno smarrimento che inevitabilmente alimenta le più svariate forme di negazionismo, facendo di quest’ultimo un fenomeno dai contorni ormai epocali, di cui l’esempio più vicino ed eclatante – perché ha coinvolto in prima persona persino non pochi capi di Stato – si è avuto in occasione della pandemia di Covid-19.

Non è certo stato l’evento dell’11 settembre 2001 il primo ad aver fatto registrare accese reazioni negazioniste. Tuttavia in tale occasione esse colsero molti di sorpresa, non meno dell’evento cui si riferivano, proprio perché quest’ultimo si era consumato di fronte a «l’intera popolazione mondiale […] trasformata in una platea di testimoni oculari impietriti». Perciò quelle reazioni negazioniste attirarono l’attenzione di osservatori come Slavoj Žižek e lo stesso Baudrillard. Il primo le collegò appunto al crescente «processo di virtualizzazione» che già allora egli vedeva cominciare a farci «percepire la stessa “realtà reale” come un’entità virtuale». Il secondo vi trovò piuttosto la conferma particolarmente evidente di uno smarrimento più profondo, da lui da tempo denunciato, da parte dell’Occidente: quello del «principio di realtà», che notoriamente in psicoanalisi designa la fase dello sviluppo psichico in cui s’incomincia a imparare che la ricerca del soddisfacimento non può basarsi solo sulle proprie condizioni, ma deve necessariamente fare i conti con quelle che la realtà impone. Cosa intende allora Baudrillard quando afferma che l’Occidente avrebbe smarrito il «principio di realtà»? Mi viene quest’esempio: continuare a perpetrare un capitalismo che rapina e violenta l’ambiente senza porsi davvero il problema di che succederà alle future generazioni, ovvero cercare il proprio soddisfacimento senza fare i conti con le condizioni che la realtà impone. Ecco cosa vuol dire aver perso il «principio di realtà». Problema che, come l’esempio segnala, già comporta lo smarrimento di un orizzonte condiviso – in quel caso transgenerazionale –  nella mediazione della realtà.

Di ciò l’attuale assetto di Internet evocato da Obama appare allora, anziché la causa di fondo, un potente acceleratore che ha prodotto vistose e minacciose “complicanze”, come si dice quando una malattia si aggrava. Terminologia che sembra peraltro inevitabile, visto che fu senz’altro quella più praticata da chi si sforzò di capire le dinamiche che produssero l’evento dell’11 settembre 2001. Forse possiamo allora aggiornare il quadro clinico precisando che, se da tempo la malattia ha condotto il corpo che ne è affetto a non saper esprimere una positiva dimensione di convivenza politica, ora viene in chiaro che esso non riesce nemmeno più a riconoscersi come organismo – come società, insomma – ed a fare in quanto tale i conti con la realtà. Ne deriva, come quell’evento già segnalava, che per questo corpo ormai non è più questione di soddisfacimento, ma di sopravvivenza. Drammaticamente sempre più in pericolo.

Riferimenti bibliografici
J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina, Milano 2002.

J. D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini Studio, Milano 2002.
G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003. 
M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Raffaello Cortina, Milano 2016.
Id., Dei poteri dell’archi-schermo e dell’ideologia della “Trasparenza 2.0”, in “Between”, vol. VIII, n. 16, novembre 2018.
R. Grusin, “Premediation”, in Id., Radical mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali, a cura di A. Maiello, Pellegrini, Cosenza 2017.
C. Guillot, Un événement photographique, in “Le Monde”, 10 settembre 2011.
W.J.T. Mitchell, Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, La casa Usher, Firenze 2012. 
S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale. Cinque saggi sull’11 settembre e date simili, Meltemi, Roma 2002.

*Questo articolo costituisce parte della Prefazione all’edizione aggiornata e ampliata del libro di Mauro Carbone, L’evento dell’11 settembre 2001. Quando iniziò il XXI secolo, Mimesis, Milano 2021, di prossima pubblicazione. Per gentile concessione dell’editore.

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